di Pierluca D’Antuono
Cara Agostina,
non immaginerai mai le notizie che ho ricevuto questa mattina e non lo farai perché non potrai ricordare, o così almeno decido nel momento in cui ti dico che eventi insignificanti modificano i pezzi di una giornata ma non ne riscrivono la storia. E a noi cosa rimane, se non una manciata di ritratti immobili che per pigrizia chiamiamo ricordi? Nulla, e va bene così, perché il tempo passa e crolla su di sé, si ribalta e si ripete ma non torna mai indietro (è come vedersi). Quanto ne è trascorso, Agostina? Hai mai contato i giorni? È quasi sicuro che Gerry avesse ragione, sarò sincero perché sento addosso ognuno dei duemila anni che ci siamo lasciati alle spalle, e non posso fingere di non sapere che siamo morti tutti, chi di sonno, chi perché non ha guadagnato, chi ha continuato a bucarsi per strada, le donne che non sono state più felici, non più di allora. Abbiamo rimesso in moto le lancette dell’orologio? Abbiamo mai suonato le nostre canzoni? Abbiamo davvero fatto di tutto? È sortita un’altra volta Roma, la notte è finita? E tu Agostina hai mai più finito il tuo pezzo?
Io lo so, perché non l’ho mai letto fino a questa mattina. Vorrei dirti che è stato un momento intenso che faticherò a dimenticare, ma non è vero: il tempo ha rallentato impercettibilmente, ho domato un’erezione modesta ripensando a un nostro viaggio in metro, ho scorto la tua firma in calce e come da copione avrei dovuto riconoscere la qualità delle tue parole, se solo avessi avuto accesso alla reciprocità del gesto.
Leggendo il tuo articolo ho pensato alle notizie appena ricevute e al fatto che non sarebbero servite a nulla, anzi: non sarebbero mai state utili. Era, cara Agostina, una considerazione che investiva perlopiù me, la mia posizione nello spazio e i miei movimenti dentro alla tua testa, al di là dei tuoi occhi, sotto forma di pensieri. Ho cercato di stornarli ritornando al momento preciso in cui abbiamo cominciato a interessarci a Nico D’Alessandria, convinti che l’accento cadesse sulla i e che l’umanità sarebbe rimasta per sempre divisa su una serie di questioni marginali, eppure fatali: esiste un canone, o è forse un filone, che lega i minori in debito pasoliniano? È un cinema periferico o è Roma una immensa periferia? L’eroina è un MacGuffin e Battisti è il suo profeta o ogni cosa suona bene con Battisti? Ci costringeremo per sempre a scegliere tra Caligari e D’Alessandria? Scopriremo mai se L’Imperatore di Roma sta ad Amore Tossico come i Beatles ai Rolling Stones o come John Lennon a Paul McCartney?
È durato solo un attimo, poi tutto è proseguito nella stessa direzione di prima. Ti ho giurato, ma non era vero Agostina, di avere già visto L’imperatore di Roma in un giorno qualsiasi del 1999, e di ricordarlo come avrei potuto ricordare la programmazione delle stazioni radio in diffusione negli uffici pubblici dove ancora si poteva fumare (Biagio Antonacci, anche lui a San Patrignano, lo sapevi?), pochi mesi prima che Gerry morisse, non di Aids né di overdose, a due giorni dal nuovo millennio (lui che ci teneva tanto). Riesci a immaginarlo diverso, più vecchio, senza baffi, nella casa del padre, dentro al tempo, su Linkedin o su Facebook? Io no, ed è la mia unica certezza.
Vedi Agostina, non ho risposte, non le sto cercando e per questo allora ti chiedo: se il film non parla di eroina ma di una rovina che esiste solo a Roma e scorre nel tempo dei gladiatori dentro uno spazio desertificato, se Gerry è pazzo e il suo è il delirio dell’occhio dietro alla macchina da presa, il delirio del cinema che riavvolge il tempo e lo annulla, se assumiamo il legame tra Agosti e D’Alessandria ma lasciamo fuori Victor Cavallo, se questa lettera per te piena di domande vale in realtà soltanto per il mio sguardo, cosa ci rimane dell’ennesima visione dell’Imperatore di Roma, il film più bello della storia del cinema da vedere in estate ad Aversa, proiettato sulle sbarre di Via San Francesco di Paola numero 2 o nella stanza di contenimento più grande, prima di scoprirla la più esposta ai legacci degli infermieri?
Questa mattina, cara Ago (posso chiamarti Ago?), ho ricevuto una lettera dalla Cicalone Productions. Sono dispiaciuti di non aver trovato il tempo di risponderci prima negli ultimi dieci anni e per scusarsi chiariscono l’equivoco: non hanno prodotto il film, lo hanno soltanto caricato su Youtube (“li sapete leggere i titoli di testa?”). L’intervista in ogni caso ce la concedono. Se vogliamo ancora. Se ricordiamo le domande. E poi perché farle.
Il veliero intanto va.
Tuo
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