L’apparizione delle birre artigianali nei bar e nei ristoranti non è avvenuta in una data precisa. Sono cose che misteriosamente accadono, come la vendita di milioni di Nutella Biscuits in poche settimane. Del resto tutto cambia, ma se risaliamo la china delle nostre abitudini, intravediamo l’origine del mutamento.
Per la mia generazione la birra era una e una sola, la chiameremo “I.”, una lager dal retrogusto di mais e malto sedimentato su fondo del bicchiere, venduta rigorosamente in bottiglie da 66cl. Al bar, al ristorante o in pizzeria, al baracchino per strada, al negozietto sotto casa, dai parenti o dagli amici, se chiedevi una birra o questa ti veniva offerta, quella era una I.
Una cosa però va detta: l’alternativa esisteva, la chiameremo “H.”, anch’essa una lager. Ma per avere una H. erano necessarie due accortezze: esser chiari e specifici: «voglio un’H.»; essere disposti a pagare un prezzo maggiorato (pochi spiccioli) a bottiglia. Due fattori che ne limitavano la diffusione.
Un non meglio precisato giorno, nei bar di zona, si presentò una birra di origini nordiche che, bevuta, fermentava nello stomaco causando attacchi di meteorismo o, peggio ancora, colite. La chiameremo “C.”. La sua fulminea apparizione ebbe il merito di insegnare ad H. una lezione fondamentale: se non sei in grado di sconfiggere il nemico sul campo, puoi sempre trasformalo in tuo alleato, o meglio, in tuo sottoposto.
L’acquisto di I. da parte di H. fu seguito da un costante calo del già mediocre gusto della stessa I. Molti consumatori, delusi ma pragmatici, iniziarono a bere direttamente H. Chi non si rassegnava invece, si orientò verso quelle che chiameremo “birre speciali”, che di speciale non avevano nulla ma venivano così definite in quanto non Lager e non vendute in bottiglie da 66cl.
Qualcosa nel bicchiere stava cambiando. La mossa di H. aveva rotto le granitiche abitudini preesistenti e, complici anche i mutamenti sociali ed economici di lì a venire – i voli low cost, i social network, la sharing economy, la crisi –, si era messo in moto il famoso effetto “palla di neve”. Da piccolo e sparuto gruppo di ribelli, la fetta di consumatori che si diede alle birre speciali divenne una indistinta massa di gole assetate in rapida e costante crescita, orientata alla ricerca di nuovi sapori, marche, gradazione alcolica e robe così. Per esempio, tra le “speciali” c’era una birra che chiameremo “G.”. A consumarla era una minuscola nicchia di amanti di musica celtica e letteratura fantasy che si ritrovava nell’unico pub di zona. Nel giro di poco questa nicchia venne inglobata dalla massa di gole assetate di cui sopra e i pub aprirono a ogni angolo di strada.
L’incontrollata sbronza collettiva, certamente positiva, aveva fatto perdere di vista l’avamposto di partenza, ormai alla mercé degli squali dell’industria birraia. Il posto di I. nei bar fu preso da un birrificio italiano, che chiameremo “P.”, che aveva fatto sintesi degli sconvolgimenti appena avvenuti. Le proposte del mastro birraio P. variavano come i luppoli sulle sue etichette e sembravano aver trovata la quadra per far felici tutti. Ma il post sbornia, si sa, è peggio della sbornia stessa e presto le proposte di P. si rivelarono per ciò che erano: l’ennesima trovata dell’ufficio marketing di una multinazionali-multibrand che puntava a monopolizzare il mercato con birre dalla forma superiore alla sostanza.
In ogni caso, indietro non si tornava. Costretti a mettere in discussione abitudini e certezze, alcuni consumatori passarono definitivamente al vino, convinti che le energie utili a decifrare la complessità avesse senso spenderle in una sola bevanda, per di più già nobilitata. Si trattava di quelli che, al primo segnale, passarono a bere la concorrenza. Gli altri, quelli che non si erano rassegnati, i curiosi, i nostalgici, gli intraprendenti, sfruttarono la breccia per invadere il mercato con micro-birrifici d’assalto.
Da piccolo e sparuto gruppo di ribelli, la fetta di consumatori che si è in convertita in produttori è oggi in costante crescita, tant’è che non esiste regione, provincia, città e forse quartiere che non abbia il suo micro-birrificio di riferimento, e ognuno di noi ha un amico, un parente o un conoscente che prova o ha provato a farsi la birra in casa. E se non ce l’ha, vuol dire che è lui stesso a farla.
Per concludere, se la data di apparizione delle birre artigianali nei bar e nei ristoranti non è avvenuta in una data precisa, a guardar l’evoluzione delle nostre abitudini possiamo scoprire che, forse, non sono cose che misteriosamente accadono.
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