«Non ho ancora capito perché lo hai fatto? Il vero motivo intendo… adesso saresti dovuto essere almeno sollevato»
«È impossibile che sia sollevato; è come un gatto che si morde la coda. Mi sembrava giusto riprendere i soldi che spettavano a Lara… anzi, mi sembrava giusto e basta»
«Spiegami cosa vale il giusto se alla fine ti ritrovo qui seduto con la fronte tra le mani?»
«Senti, in questo mondo non può essere felice chi riesce a vederci chiaro nel grande polverone… come forse in nessun altro. Chi ci capisce qualcosa fa la fine che può fare il violento, che poi è la stessa del ladro o del guerriero, oppure fa la fine del martire o del matto. E io non voglio essere né un martire né un matto, ecco perché ho fatto quello che ho fatto».
«A me non piace la piega che sta prendendo questo discorso…»
«A te non piace niente che non sia un tramonto, cristo»
«A me non piace dedicare il tempo alla violenza, che è proprio quello che stiamo facendo adesso»
«Ora te la faccio io una domanda: perché tu fai finta di non pensarci a quanto è buio qua fuori? Non lo ammetti… sono io a chiederti perché adesso».
Ci fu una pausa.
Guardai dritto di fronte a me.
La panchina sulla quale sedevamo era scomoda: mancava un’asse, l’ultima dello schienale; ed entrambi i nostri colli erano tesi per via che non poggiavamo la parte superiore della schiena, dalle scapole in su. Due assi su tre bastavano, in effetti, a rendere scomoda una seduta. Il sole calava oltre le cime di alcuni alberi di fronte a noi e, sinceramente, questo fu sufficiente affinché tralasciassi il particolare fastidio dovuto allo schienale. E anche tutta un’ulteriore serie di questioni, una serie di piccole crepe che purtroppo vi erano; non sarebbe corretto negarne la presenza, di quelle crepe.
Era una verità quella che aveva detto, cos’altro avrei potuto rispondere?
La verità, una delle numerose, ma a suo modo evidente, era racchiusa in quella frase sugli uomini consapevoli, uomini che purtroppo non saranno mai in grado di vivere bene, in nessuno dei mondi (avrei comunque specificato: in nessuno dei mondi in cui si accettano le proprie mancanze invece di provare – almeno provare, miseria! – a colmarle). E non avrei potuto affermare di non sentire l’asfissia, a maggior ragione quando si faceva sempre più opprimente: in queste occasioni mi costringeva, e il mio respiro diventava affannoso, faticoso, denso; gli occhi pesanti e cupi.
Un discorso simile – intendo la risposta sui violenti e ladri o matti e martiri –, tuttavia, non era giustificabile, pensai, poiché mosso dal desiderio di vendetta verso quell’asfissia: per non doverla accettare.
Devo ammettere che, infatti, guardare dritto di fronte a me si rivelava spesso essere una pratica utile affinché il mondo si limitasse a un solo punto di vista. Era necessario tenere sempre un buon punto di vista di fronte, o di lato; averne anche uno soltanto, ma ben splendente, nei paraggi, mi dicevo. Lì, ad esempio, era quel sole rossastro dietro la coltre di pini: la luce filtrava tra i tronchi non troppo distanti, ma non troppo fitti, oltre lo spiazzo polveroso dove era stata ancorata la panchina al terreno e dove noi stavamo seduti a tirare un respiro. Eravamo arrivati lì verso le cinque del pomeriggio.
«Non conta la mia risposta», dissi allora «ma il fatto che continua a non piacermi la piega che sta prendendo il discorso. Tutto diventerà buio, tutto andrà a finire male, quando, in realtà, avremmo potuto guardare in un’altra direzione».
«Io sto dicendo che sta già andando male».
«Sì, ma è importante la differenza tra perché va male ora e perché andava male prima che tu parlassi: prima non ne eri tu l’artefice», dissi e il discorso terminò in maniera piuttosto brusca.
Il cielo era rosso, a quel punto, e la foresta era diventata una macchia scura indistinta, un’ombra placida che accettava qualsiasi dubbio e lo cancellava; entrambi guardavamo, sempre a quel punto, ognuno dritto di fronte a sé; ma lo facemmo soli.
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