Nel momento in cui vidi le mazze da baseball calare sulle nostre teste, non pensai a quanto potessero far male, né quali ossa ci avrebbero rotto. Pensai invece quanto fosse facile fraintendersi, e come basti poco per pagare questi, chiamiamoli, errori.
Tutto iniziò con una dritta su una piazza ben fornita ma posta in una zona, per noi, poco conosciuta. Senza un fornitore fisso e affidabile, ci facemmo andare bene la cosa, forse sopravvalutando la nostra scaltrezza.
Avevamo solo il contatto di un venditore che, contrariamente ai nostri pregiudizi, si rivelò cordiale e amichevole, e per fidelizzarci ci trattò come clienti di lunga data, aprendo a quello che, ai nostri occhi, appariva come un accordo fra gentiluomini, digiuni com’eravamo delle diverse regole di contrattazione applicate da quelle parti.
Il secondo acquisto infatti si rivelò molto sbrigativo, al limite del paranoico, e con la scusa di un’imminente retata, il contatto si dileguò, rifilandoci un clamoroso pacco.
Più delusi che arrabbiati, volevamo chiarire il disguido, consapevoli che l’errore fosse dovuto alla concitata compravendita e non al venir meno della sua iniziale parola.
Il pomeriggio successivo ci ripresentammo in zona, ma il nostro uomo non c’era. Di lui sapevamo nome, alcuni dettagli fisici e la sua abitudine a veleggiare tranquillo da un punto all’altro del quartiere in sella a uno scooter rubato.
Avevamo chiesto in giro, e dopo una lunga posta e un pedinamento da manuale, lo avevamo intercettato in una strada senza uscita, fermando l’auto dietro di lui con i fari addosso, mentre tirava su la serranda di un garage.
Le nostre intenzioni erano buone, ma da fuori non dovevano apparire tali. Capimmo tardi che, se sei uno spacciatore e una macchina ti chiude la strada, sospetti. E sa da questa scendono dei tizi che ti chiamano per nome, butta proprio male.
Lo avvicinammo, senza renderci conto di averlo accerchiato.
Lui, però, in tono alterato, prima ci chiese chi eravamo e cosa volevamo, poi negò qualsiasi cosa noi dicessimo. Senza renderci conto dell’ambiguità della nostra posizione, gli chiedemmo di fidarsi, ma ribadì che non ci conosceva, non ci aveva mai visto e non ci aveva mai venduto niente. Senza troppi giri di parole, ci stava cacciando.
Nel frattemposi erano materializzate attorno a noi, venendo fuori da non so bene dove, forse da dietro i pali della luce o da sotto i tombini, delle persone di cui vedevamo solo le sagome, per via dei fari della nostra auto puntati addosso.
Capita la situazione, riparammo in macchina, quando un secchio di vernice esplose sul parabrezza, facendoci letteralmente cagare sotto dalla paura.
Non avevamo fatto in tempo a capire da dove fosse arrivato e perché, che seguì una fitta sassaiola sulla carrozzeria, e in men che non si dica ci trascinarono fuori dall’auto, sull’asfalto, per ricoprirci di pugni e calci.
Storditi e pesti, ci trascinarono in quello che doveva essere il garage del nostro uomo, per essere legati, e gettati contro una parete umida.
Quando la serranda calò e una luce artificiale inondò il locale, prese il via un sommario processo, in cui loro ci accusavano di essere chi noi non eravamo. La possibilità di chiamare l’avvocato per dimostrare le nostre buone intenzioni ci fu negata, e la sentenza non tardò ad arrivare.
Il primo colpo calò su uno di noi con incontenibile furia, e la testa di chi lo prese rimbalzò tra l’estremità della mazza e il muro alle nostre spalle.
Non esplose, e il tonfo che seguì il gesto non ci fece subito pensare a quanto potesse far male né quali parti del cervello il nostro amico potesse aver perso, piuttosto, ci fece pensare a quanto stupido e futile fosse il motivo della nostra condanna.
Senza volerlo, avevamo dato il via a un chiarimento tra uomini pratici e di poche parole, cosa che noi, purtroppo, non eravamo. Per questo, osservando il secondo colpo calare con altrettanta furia, pensavamo a quanto, nella vita, fosse facile fraintendersi.
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