Non pensavo che avrei apprezzato così tanto l’ultimo regalo di mio padre. So perché lo ha fatto e so anche quanto tempo gli è costato ideare questo oggetto, ma se devo essere sincero proprio non me lo sarei mai aspettato da lui, visto che ha passato tutta la vita a punirmi duramente per come sono fatto. Gli psicologi amano chiamarle parafilie, cioè quei comportamenti anomali o se volete atipici che ci guidano lungo quel viaggio dantesco che culmina nell’umido piacere, il più delle volte sessuale, anche se esistono casi di piacere meramente sensoriale, come quando si tocca il velluto e non è l’orgasmo il nostro fine, ma lo sprofondare nel tatto, tutti gli altri sensi mosche cieche con la testa piatta. E così è per me. L’ho spiegato tante volte a mio padre, che però non è un uomo di concetto, ma un ingegnere. Per lui ogni cosa deve mirare a una funzionalità adeguata a certe norme stabilite dall’alto, mentre io rimango ai suoi occhi una sorta di errore di calcolo, un’infiltrazione d’acqua nascosta nelle fondamenta che alla lunga farà crollare l’intero edificio corrodendolo dal basso. Uno sbaglio privo di verità che deve essere corretto con la forza, se necessario.
Ma la mia verità è che amo pisciarmi addosso. Amo l’umido calore del mio piscio che dilaga nella vasta estensione della mia pelle. E poi quell’umidità che permane nelle vesti. E la consapevolezza dell’illogicità delle mie azioni. Le mie azioni che non sono contenute in un libro di psicologia, ma solo nell’oceano sensoriale del mio corpo. Le mie sensazioni che per gli psicologi non sono vere, ma anomale. Amo la mia libertà. E poi l’odore. E la totale assenza di vergogna. Più di tutto io amo la mia totale assenza di vergogna. Amo il fatto che mi piscio addosso e continuo a guardare le persone intorno a me come se non stesse succedendo niente di strano, continuo a parlare o ad ascoltarle o a fissarle negli occhi, soprattutto a fissarle negli occhi, le loro pupille che si contraggono mentre si rendono conto di cosa sta succedendo e non sanno come comportarsi. L’attimo in cui entrano in confusione. Amo la loro confusione.
La prima volta che mi sono pisciato addosso in modo consapevole è stato quando ero in quarta elementare. Durante l’ora di italiano cominciai a sentire un certo dolore al ventre: era lo stimolo delle vie urinarie. Alzai la mano e la maestra mi chiese cosa volessi ancora e ancora, sempre a disturbarla con le mie interruzioni. Le chiesi se fossi potuto andare in bagno e lei rispose di no, che questo era un momento importante della lezione e non dovevo perdermelo. Insieme al dolore alla vescica crebbe in me un odio profondo nei suoi confronti. Le due sensazioni, quella del dolore e quella dell’odio, andavano di pari passo, quando finalmente giunsi alla consapevolezza che se non potevo recarmi in bagno, allora tanto valeva farsela addosso. Sì, pisciarsi addosso. Dalla finestra entrava un raggio di sole pomeridiano. Non lo dimenticherò mai. C’era silenzio. La superficie del banco era liscia. Il piscio cominciò a scendere dalle mie gambe e andò a riempire le mie scarpe. Poi si formò una pozza intorno ai miei piedi. E in me, mentre continuavo a pisciarmi addosso, si palesò il piacere liberatorio capace di trasformare l’odio nei confronti della maestra in una specie di accecamento di tutti i sensi, queste mosche cieche della vista, dell’udito, dell’olfatto e del gusto, di tutti sensi dalla testa piatta tranne che del tatto, l’unico a percepire perfettamente.
Perdersi nel tatto.
Questa è l’unica cosa che conta.
Da quel giorno cominciai a pisciarmi addosso di continuo. Alle feste dei miei amici. In campo quando giocavo a calcio. In automobile. Durante le cene. A letto. Mentre ero sulla spiaggia, ma non dentro al mare. Mi pisciavo addosso mentre ero sotto l’ombrellone e gli altri bambini mi guardavano esterrefatti chiedendomi di andare a fare il bagno. Ma se me la fossi fatta addosso dentro al mare non ci sarebbe stato alcun piacere tattile. Nessuno che lo abbia mai capito. E poi crescendo cominciai a pisciare mentre ci provavo con le ragazze, mentre mi interrogavano a scuola, durante la ricreazione, mentre sfrecciavo in motorino, una scia gocciolante per le strade della città, e ancora al cinema, al teatro, nei bar, nelle piste da ballo delle discoteche, dio quanto amo pisciarmi addosso nelle piste da ballo delle discoteche e poi ancora quando iniziai a cercare lavoro, durante i colloqui e, una volta vinto un bando pubblico amministrativo, nel mio ufficio, dove chi entra deve tapparsi il naso per l’acre, pungente, magnifico odore di urina umana.
Tutto questo ovviamente, come potete ben immaginare, mi ha creato non pochi problemi nella mia vita sociale, ecco perché ho molto apprezzato il regalo di mio padre. Per il mio trentaduesimo compleanno lo vedo arrivare a casa mia con un enorme pacco infiocchettato con tanto amore. A tappargli il naso, come sempre, una molletta. Mi dice che finalmente ci è riuscito. A fare cosa? Gli domando io. Sono riuscito a trovare il modo per renderti una persona normale nonostante la tua parafilia. E mi porge il pacco. Con fastidio e risentimento lo apro. È una tuta nera, gommosa. Mi dice provala. Sento così forte il bisogno di pisciarmi addosso che quasi quasi gliela faccio sui suoi piedi, ma è uno stimolo ancora non sufficiente per lasciarsi andare. Dai provala, insiste lui. Non so perché ma lo accontento. È una tuta che ricopre tutto il mio corpo tranne la testa. È comoda. Poi mi dice adesso pisciato addosso. E io rimango interdetto. Non so per quanti anni mio padre mi abbia ripreso duramente per come sono fatto, sostenendo che il mio comportamento fosse così sbagliato da essere inaccettabile, una vera e propria crepa nell’edificio della vita. Non so per quanti anni mi abbia ripetuto la frase “non pisciarti addosso”, per cui sentirlo adesso affermare quello che ha appena affermato mi lascia esterrefatto. Avanti, ripete, pisciati addosso. Con grande fatica lascio andare i freni inibitori e spingo il caldo liquido dentro ai canali dell’uretra e poi piano piano lo percepisco mentre fuoriesce dal mio corpo. Mi aspetto che l’urina dilaghi tra le mie gambe e poi giù fino ai piedi, invece sento che la tuta convoglia il piscio dentro a tasche disposte su tutto il mio corpo. Queste tasche sono calde e bagnate nel modo giusto. Il mio piscio va sulla schiena, sul petto, sotto le ascelle, in luoghi in cui non mi ero mai pisciato addosso. Mille nuovi universi si dischiudono a contatto con me. Devi sapere, dice mio padre, che le tue urine, dice mio padre, saranno riassorbite dal tuo corpo, dice mio padre, così che tu potrai pisciarti addosso a ciclo continuo, dice mio padre mentre io sprofondo in un deliquio mai provato prima. Ho deciso di chiamare questa tuta, dice mio padre, tuta distillante o se più ti aggrada, dice mio padre, tuta Fremen, dice mio padre, perché ti fa fremere tutto. E da quel giorno io mi piscio senza sosta su tutto il mio corpo, a ciclo continuo, come una persona normale. Grazie padre per il tuo regalo.

Rispondi