Hal Cust guardò attraverso l’oblò, vide minuscole bolle di sapone dai colori acidi colonizzare un paio di mutande e il colletto di una camicia; ne osservò le giravolte liquide per un paio di minuti e gli tornarono alla mente gli occhi lucidi di suo fratello Louis che processavano la notizia della morte della loro madre in un giorno di primavera a Monroe; non erano andati a scuola.
Pensò di alzarsi: avrebbe atteso la fine del lavaggio sdraiato sull’erba del parco di fronte all’Harlem Meer, un laghetto la cui acqua conteneva probabilmente tutto il sapone delle lavatrici a gettoni di Harlem, a pochi metri dal Lenox Boulevard.
Sulla soglia della lavanderia, sotto all’insegna Big Bubble, salutò Mercedes che cambiava una banconota da venti con due da dieci, le disse che sarebbe tornato dopo la solita mezz’ora, che sarebbe andato nel solito posto e, nel caso che avesse ritardato, la pregò di non buttare via nulla. Lei alzò gli occhi dalla banconota di cui grattava la zigrinatura e lo vide sorridente; gli rispose che i suoi stracci, proprio così disse, non li avrebbe toccati nemmeno per scherzo, non li toccherei dopo cento lavaggi, figuriamoci dopo uno singolo, disse Mercedes, e non ti ho mai visto arrivare in ritardo, disse; a quel punto la linea delle sue labbra mutò, da sfrontata diventò benevola. Mercedes disse ad Hal Cust che avrebbe potuto stare tranquillo, e gli disse anche che la banconota non era falsa, perché continuo a cambiarle e poi a controllare, e invece dovrei fare il contrario, così gli disse.
Mercedes odorava di lavanda, Hal Cust invece puzzava di fieno e di stoffa vecchia, una manna per chi gestisce una lavanderia a gettoni.
Fuori dalla lavanderia Big Bubble, il sole conversava con le architetture in una lingua privata che Hal Cust non era in grado di comprendere. Eppure gli sembrò che in quella conversazione particolare, sul marciapiede di fronte al vetro immacolato della lavanderia di Mercedes, vibrasse un discorso sulla volontà, sulle forme che possono assumere le scelte; un discorso sulle scelte stesse, sulla luce e sull’ombra, su quello che lui non sarebbe più stato in grado di vedere, ma anche su quello che fino ad allora non aveva mai visto.
Non riceveva notizie da suo fratello Louis da circa due mesi, aveva domandato in ogni bar esistente da Central Park alla 155ª, Louis Cust era diventato un fantasma che nemmeno si prendeva la briga di infestare i suoi sogni. Nessuna lettera, né una telefonata per avere notizie del padre. L’ultima spiaggia era stata chiedere a Huey Newton; l’aveva chiamato da una cabina telefonica, e Huey Percy Newton in persona gli aveva risposto, serio, domandandogli da chi avesse avuto il suo numero; lui gli aveva detto che lo aveva avuto da suo padre, ti conosco da quando eri grosso come un piede senza dita, Huey, mooolto prima di tutta questa storia del BPP, gli aveva detto, dov’è mio fratello?, aveva poi domandato, e Huey Newton gli aveva risposto che Louis Cust era sparito senza dire niente a nessuno, e anzi, che il suo atteggiamento degli ultimi tempi lo aveva un poco deluso, e poi aveva detto ad Hal Cust che non avrebbe mai più dovuto richiamare a quel numero, così gli aveva detto, prima del tu tu tu tu che eternava la morte del dialogo.
Hal Cust camminava lungo il Lenox Boulevard a passi larghi, ma non abbastanza per riuscire a stare al passo dei propri pensieri che parevano un miscuglio di fotogrammi presi da pellicole diverse sovrapposte l’una all’altra nello stesso proiettore, un miscuglio inorganico di ricordi e vaticini. Quando arrivò al prato di fronte al piccolo lago di Harlem, vi trovò seduto soltanto un uomo, di cui non fu in grado di capire né l’età, né le origini, né il grado di amichevolezza. L’uomo teneva qualcosa in mano, un bastone tozzo, e sembrava che il suo sguardo si posasse su niente in particolare e su tutto allo stesso tempo. Osservandolo, Hal Cust si rese conto che non desiderava una conversazione; si sedette sull’erba e tirò fuori una sigaretta dalla tasca sinistra della camicia. Cercò l’accendino che in quel momento stava volteggiando tra i suoi vestiti nella grossa lavatrice numero 6 di Mercedes: la pietra focaia fradicia, il gas annacquato, il sapone ovunque. Mercedes si sarebbe arrabbiata, ma a lui non era mai capitata una cosa simile, gliel’avrebbe fatta passare, pensò. Decise di alzarsi e di andare verso l’uomo seduto di fronte a lui. Sperò che fosse un fumatore; da lontano aveva l’aria del fumatore, pensò, ma quando fu arrivato a un paio di metri di distanza, fu in grado di capire meglio alcune cose, che cosa fosse quel bastone tozzo.
La mano di quell’uomo stringeva un largo bastone della pioggia, un palo de lluvia, come lo avrebbe chiamato Mercedes, perché i cileni del nord dicevano che fosse stato creato ai tempi del Diluvio; non parlavano mai del Monte Ararat, ma parlavano del deserto di Atacama, in cui Dio, dicevano, dopo aver troncato di netto un cactus candelabro, ne aveva ingerita la polpa e infine aveva inclinato il neonato bastone della pioggia, così che le gocce avevano iniziato a cadere seguendo traiettorie allucinate, da decine di migliaia di metri fino a picchiettare le teste piatte dei crotali che agitavano le loro maracas, sovraeccitati da quei ritmi; i cileni del nord dicevano che poi l’acqua avesse sommerso ogni cosa, così dicevano. Eppure, nel momento in cui Dio aveva inclinato il suo palo de lluvia, come accadeva quasi sempre nel deserto di Atacama, non vi erano persone, così i discendenti Mapuche dicevano anche che Dio avesse, in quell’occasione, commesso forse il suo primo errore: aveva fatto staccare il Diluvio sul deserto di Atacama proprio quando non era presente un solo cristiano, nemmeno un assassino, neppure un vagabondo, da punire.
Questo bastone della pioggia, questo palo de lluvia che galleggiava nella mano di un uomo seduto sulle proprie ginocchia, non era soltanto largo – la mano non riusciva a chiudersi se non oltre la metà del diametro –, ma era anche molto lungo, e Hal Cust si domandò quanta pioggia potesse richiamare un tale bastone della pioggia.
L’uomo, da quella distanza ravvicinata, aveva l’aria di essere molto vecchio, e non l’aria di essere un fumatore, pensò Hal Cust, ma a quel punto lui gli era già troppo vicino per allontanarsi.
Il vecchio si voltò, e, tenendo il bastone parallelo alla linea dell’orizzonte, lo salutò, gli domandò chi fosse e se avesse per caso bisogno di un accendino. Gli disse anche che non lo aveva, come avrai capito non fumo, così gli disse; e anche che invece di fumare quella merda avrebbe potuto rilassarsi con una tisana. A quel punto Hal Cust sentì un fortissimo istinto di girarsi, guardarsi le spalle, come se vi fosse stato suo fratello lì dietro. Lo fece, sì voltò, ma non vide altro che erba giallastra bruciata dallo smog e dal sole.
Allora si sedette accanto al vecchio e gli domandò che cosa vi fosse nella tisana, e il vecchio rispose che nella tisana c’era la polpa dello stesso cactus candelabro con cui Dio aveva commesso il suo primo errore, ma non mi hai ancora detto come ti chiami, continuò il vecchio, e così Hal Cust rispose Hal Cust. Il vecchio guardò il giallo putrido che colorava il lago di fronte a sé, e disse che gli pareva di avere già conosciuto un Cust, qualche mese prima. Disse anche che gli aveva offerto la tisana e che quello l’aveva bevuta.
Hal Cust domandò al vecchio di descrivergli quel Cust che aveva conosciuto, e il vecchio disse che ricordava un ragazzo dalla pelle nera e luminosa, molto alto, disse, e disse anche che indossava un cappotto di pelle nera e luminosa che gli arrivava a mezza coscia, poi disse che teneva sempre le mani in tasca e che aveva un ciuffo di peli che gli spuntava sotto il mento, e che la tisana lo aveva rimesso al mondo, quel ragazzo, così gli disse il vecchio, che se ne era andato con un gran sorriso.
Hal Cust domandò allora al vecchio se quel Cust gli avesse detto qualcosa, qualsiasi cosa, prima di andarsene, perché stiamo parlando di mio fratello, ed è sparito nel nulla, disse Hal Cust, e il vecchio gli rispose che l’unica cosa che quel giovane gli avesse detto era stata che aveva il dubbio di aver commesso un grave errore e che non sapeva più chi fosse, mi ha detto che non riusciva più a riconoscere se stesso, dopo quell’errore, e che avrebbe fatto qualunque cosa per ritrovarsi, così disse il vecchio ad Hal Cust.
Allora vi fu una pausa, dopo la quale il vecchio fece una domanda che stupì Hal Cust: gli domandò se lui avesse mai commesso qualche errore; anzi, per essere precisi, gli domandò se avesse mai pensato di aver commesso qualche errore, e senza aspettare la risposta disse che, se avesse voluto, avrebbe potuto ruotare il palo de lluvia che teneva in mano per fargli capire ogni cosa, per fargli vedere quale fosse il suo più grande errore, così gli disse, ma che prima avrebbe dovuto bere la tisana.
Hal Cust si trovò a riflettere: aveva ancora una ventina di minuti buoni prima della fine del lavaggio, e desiderava mettere un punto alla sospensione in cui si trovava da giorni; era preoccupato per suo fratello, se quello fosse servito per ripercorrere i suoi passi?, pensò, così disse al vecchio che avrebbe bevuto la tisana e quello gli passò subito un coccio pieno di un liquido fresco, non bollente come lui avrebbe pensato; il vecchio gli disse di berlo tutto d’un fiato e lui lo fece, chiudi gli occhi e ascolta, adesso, disse il vecchio, e lui lo fece.
Milioni di chicchi di pioggia iniziarono a battere sulle spine rovesciate del cactus candelabro all’interno del palo de lluvia del vecchio. Hal Cust pensò che il suono del mondo risiedesse all’interno di un ritmo, invece che di una melodia, come aveva sempre pensato; sentì battere, sentì tamburellare e la pioggia iniziò a scivolare dal cielo sul prato di fronte all’Harlem Meer di Central Park.
Vide per prima cosa i piedi di sua madre dentro due scarpette bianche che scivolavano sul legno di un palcoscenico, in mezzo alle luci; e vide se stesso mentre piangeva, perché non voleva che gli occhi degli spettatori si mangiassero tutta quella bellezza; vide i suoi stessi occhi, luminosi e acquosi, e le sue lacrime cadere tra le lunghe spine rovesciate del cactus candelabro insieme alla pioggia e ai semi. Poi vide suo fratello: lo vide sorridere e tenere in mano un coccio simile a quello che teneva in mano lui stesso, e vide suo fratello porgergli il coccio e poi si vide afferrarlo e iniziare a bere; mentre l’interno di quel coccio era pieno di spine, così bevve e l’acqua sembrava non finire mai, l’acqua che passò da essere quella della tisana del vecchio a quella dell’Harlem Meer a quella della lavatrice numero 6 di Big Bubble a quella del bayou vicino a Monroe in cui lui, suo fratello e Huey Newton andavano a disturbare i caimani quando erano piccoli.
E infine la vide, sua madre, aveva però gli occhi di Mercedes, ed era lontana, in mezzo al diluvio, e allora Hal Cust chiese perdono per non essere stato accanto a lei sulla strada che da Bee Bayou portava a Monroe. Si vergognò come un cane, e si guardò intorno ma non vide né il vecchio, né suo fratello. Scoprì di essere nudo come un verme e sentì tutto d’un tratto un grande freddo.
La pioggia intanto era diventata un muro e il suono dei semi di Browningia candelaris che cadevano era così denso che ad Hal Cust sembrò di non riuscire più a respirare, sentì i polmoni riempirsi di acqua e non vide più nulla.
Quando si svegliò il vecchio era sparito.
Si trovava in un letto morbido; fece caso al contrasto tra il proprio braccio nudo e le coperte bianche, immacolate, e si commosse. C’era un forte profumo di lavanda, e dalla finestra questa volta il sole gli parlò chiaramente e gli confidò un segreto.
Non fece in tempo a ripeterselo in mente che Mercedes entrò nella stanza e gli offrì un bicchiere d’acqua fresca. Lo rimise al mondo.
Rispondi