Il motivo per cui mi piace piangere al cinema è che al cinema si piange sotto gli occhi di tutti, mentre nessuno può vederti. Da un lato il bisogno di riservatezza inculcato da anni di placide passeggiate sui verdi pascoli della buona società, dall’altro il desiderio ossessivo, impellente e imperante di essere compresi, compatiti e amati da ogni singolo essere vivente in soggiorno su questo piccolo e azzurro pianeta. Due spinte diametralmente opposte, soddisfatte contemporaneamente da un unico gesto, plateale e segreto, sacro e sfacciato, al gusto burro, bollicine e grassi saturi.
Questo è il motivo per cui mi piace piangere al cinema, ma non il motivo per cui lo faccio. Il motivo per cui lo faccio, e per cui lo fanno anche moltissime altre persone, è che a) il regista ha deciso che devo farlo, e proprio su quel fotogramma lì, e per riuscire nel suo bieco disegno ha tirato su tutto un armamentario di musiche, sguardi, dialoghi o che so io b) possiedo una straordinaria capacità di immedesimazione, molte volte del tutto arbitraria e ingiustificata c) da qualche parte dovrà pur debordare tutta l’emotività che ogni giorno mettiamo coscienziosamente da parte in attesa di chissà quale gelido inverno.
C’è chi ne va proprio fiero, di piangere al cinema. C’è chi va a vedere film tristissimi e uscendo commenta la quantità e la qualità delle lacrime appena versate, le confronta con quelle degli amici, e se la scena in questione è la stessa per tutti è come scoprire di aver passato l’infanzia sulla stessa spiaggia, a due ombrelloni di distanza. C’è chi si vergogna e per non farsi scoprire si finge concentratissimo nello studio dei titoli di coda, uscite intanto voi, che io rimango un secondo a controllare i nomi dei costumisti, dei cuochi e dei truccatori, sai mai ci sia qualcuno che conosco. C’è chi invece sa di essere semplicemente nel posto giusto, per una volta.
Credo di essere riuscita a commuovermi guardando quasi qualsiasi cosa, ma l’altra sera invece niente, neanche un po’ di occhi lucidi, nemmeno quel paio di secondi di dubbio per cercare di capire se sta succedendo davvero o se è solo una falsa partenza. La sala era piena, le luci erano spente e si pensava tantissimo alla morte, anche ridendo. Una bambina sa camminare sull’acqua ma non riesce a piangere, un bambino a furia di antidiabetici iniettati di nascosto da una madre idiota si ritrova con sette giorni contati da vivere, un fondamentalista del peep show ritrova per caso l’unico amore della sua vita, un aereo precipita su una spiaggia. Eppure.
Ma forse da un film che parla di dio era opportuno aspettarsi un miracolo, che si è palesato sotto forma di duecentocinquanta persone con gli occhi asciutti che si riversavano contente prima nel foyer dotato di libreria-caffè, e poi sulla strada brillante di pioggia. Forse il regista per una volta è stato clemente, o forse la mia esagerata lacrima facile, anche interpretabile come richiesta a casaccio d’affetto a chi non può dire di sì ma neanche di no, oppure cedimento alla pressione sociale, come preferite, e insomma tutto questo bel mazzetto di sentimentalismo brado, per una sera è andato in vacanza. Chissà.
Il proprietario della libreria-caffè mi fa un panino e ridacchia. Mi chiede se ho già pensato ai regali di Natale. Perché è quasi Natale. Già.
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