Scavallo una duna e scendo verso il mare.
Il sole precipita all’orizzonte e i colori bruciano gli occhi.
Sulla battigia aspetto l’onda, e una rana si posa sul mio piede.
Una rana, al mare.
Salta via, ma ne arriva un’altra.
Due rane al mare.
La risacca altera la solidità del suolo sotto di me. Per ogni onda che s’infrange e ritira sprofondo e mi ancoro al suolo.
Libero le gambe e riprendo il passo incerto e zoppo, reso squilibrato dall’irregolarità del piano sabbioso.
La bruna spegne il cielo sanguigno.
Nubi a mezz’aria si addensano davanti a me. Sento pungere il collo.
Col palmo della mano schiaccio una zanzara. La puntura si sposta sulla guancia: mi tiro uno schiaffo. Quindi va sul braccio: mi colpisco. Ora è sulla gamba.
Voglio andare via da questo posto.
***
Cammino in una via che si allunga davanti a me.
Il cielo è privo di emotività e si perde dietro una foschia che appiattisce il paesaggio.
Cammino per ore, forse giorni. Non ho fame, né sete.
Incrocio persone vestite di stracci, armate di spade, ornate di spine.
Cammino per mesi, forse anni. Non ho fame, né sete.
La mia pelle sbianca, invecchia, raggrinzisce, ma non muore.
Perché?
Cammino.
***
Arrivo in una città.
È notte, ma i colori bruciano gli occhi.
Gli edifici inghiottono e rigurgitano persone.
I miei passi si perdono dietro a migliaia di altri simili: indaffarati, ansiosi, irrequieti. Un ballo in cui prima ci si evita, poi ci si sfiora, e alla fine ci si tocca, per non lasciarsi soli.
Aspetto di partecipare, ma una rana si posa sul mio piede.
Una rana, in città.
Chiede di me, la rana.
«Chi sei?» Le dico.
«Sono il tuo pastore», risponde.
«Non ho bisogno di te».
«Di cosa hai bisogno, allora?»
«Di me stesso».
«Ma io non vedo nessuno».
«Come, non vedi i miei capelli, i miei denti, le mie unghie, i miei peli, la mia barba, il mio muco, la mia pancia, il mio sudore?»
«Tu vedi tutto questo?»
«Cos’altro dovrei vedere?»
Incrociamo gli sguardi. Il mio precipita oltre i lucidi riflessi che si formano sulla gelatinosa patina che protegge i suoi occhi rossi.
Rivivo i passi indaffarati, ansiosi, irrequieti; le persone sole perse dentro edifici vuoti; la notte spegnersi in un giorno piatto e privo di emotività.
***
Saltello per ore, forse giorni. Non ho fame, né sete.
Saltello per mesi, forse anni. La mia pelle non sbianca, non invecchia, non raggrinzisce.
Saltello, scavallo una duna e scendo verso il mare.
Il sole precipita all’orizzonte ma i colori non bruciano più gli occhi.
Sulla battigia aspettiamo che la bruna spenga il cielo sanguigno e faccia alzare in volo le nostre cene.
Siamo due, cinque, dieci, cento. Mille.
Ci muoviamo insieme: un ballo in cui prima ci si evita, poi ci si sfiora, e alla fine ci si tocca, per non lasciarsi soli.
«Figliolo», dice il mio pastore, «ti è piaciuto stare qui?»
Piango.
«Ti è piaciuto?» Ripete.
«Si, mi è piaciuto. Tanto. Ma ora voglio andare via da questo posto».
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