A sei anni Quentin Tarantino osservava l’abbassarsi e l’alzarsi e l’allontanarsi e il ricongiungersi dei cavalcavia della rete stradale losangelina, un lungo e grasso pitone grigiastro stretto attorno ai pensieri e alle dita sulla gomma dei volanti, a volte cotta dal sole, a volte ricoperta da un velo lucido di sudore steso come bava di lumaca da Burbank a San Fernando, da Santa Monica a Compton, da Long Beach a El Segundo, Torrance, o su a Pasadena, e dalla cenere delle sigarette dei discografici di Bel-Air, degli agenti della Sunset Strip, di Mulholland Drive, della Beverly Crest, o del Benedict Canyon, fino a Hollywood.
Se sul finire dei ’60 un adulto al volante trascorreva meno tempo in automobile rispetto a oggi, in quel lasso di tempo un bambino come Quentin poteva comunque tendere la mano fuori dal finestrino e seguire le linee rette e curve e ancora rette e ancora curve dei tettucci delle auto parcheggiate e dei lampioni, delle chiome degli eucalipti che lasciano cadere chilometri di cortecce; sono le cortecce degli eucalipti di Echo Park spellatesi nel ’69 quelle che oggi annebbiano i soprammobili e le mensole, e che arrossano gli occhi quando vengono disperse in minuscoli granelli dal vento.
Si riconoscono quelli che vivono alla giornata, a Los Angeles, perché non si tolgono la polvere di dosso, pensava Quentin Tarantino, seienne, passando accanto a una ragazza dalle labbra carnose e dai capelli lunghi e neri che la masticava, la polvere: una giovane rivestita di polvere, con la pelle arsa dal sole, alzava il pollice polveroso per andare allo Spahn Ranch, un posto pieno di terra… e polvere.
Come sapeva, Quentin, che la ragazza fosse diretta allo Spahn Ranch? Non lo sapeva, ma in quei giorni d’estate, in quei giorni in cui la polvere ricopre Los Angeles, i pellegrini che non si facevano in quattro per togliersela di dosso si radunavano allo Spahn Ranch, perché il vecchio e selvaggio west non sarebbe mai dovuto morire.
Che l’unica possibilità per non rimanere grigi dalla testa ai piedi, a Los Angeles, era non fermarsi mai, continuare a guidare, scendere e salire, sgommare qua e là, era già chiaro anche al giovane Quentin quando aveva appena sei anni e sedeva in auto con la madre per andare da Alhambra verso l’Hollywood Boulevard, dove impallidiscono sotto il velo meschino della fretta dello show-business persino le stelle rosse di marmo, e quelle impronte delle mani dei grandi; era già sbiadito persino il manifesto di Butch Cassidy and the Sundance Kid, appena uscito nelle sale.
Così, mentre il viaggio del giovane Quentin Tarantino andava volgendo al termine nei raggi di luce sempre più fiochi, i neon e i fanali si accendevano, e uscivano i ratti e i corvi e i coyote a banchettare; poi, a notte fonda, si sarebbero commesse piccole ma enormi stragi, e Tarantino, prima di capire quali acrobazie gli sarebbero state chieste e quanto avrebbe dovuto aspettare prima di poter replicare un altro viaggio simile, si lasciava impressionare dall’alone di quelle luci artificiali e dal mistero celato dietro alla notte di Los Angeles che innescava il desiderio di certi scarti umani di far scorrere il sangue e di usarlo per scrivere sulle porte bianche e immacolate di Cielo Drive, e usarlo per sverginare la purezza del sogno americano.
Oggi a Los Angeles – a Hollywood se vogliamo – Quentin Tarantino continua a scuotersi la giacca e le scarpe, prima di entrare in auto, poi si mette alla guida e ci resta almeno due ore e mezza buone. Vuole scappare anche lui da quell’onnipresente cumulo di granelli che non è altro che centinaia di migliaia di scheletri sgretolati e rimestati dal vento del Pacifico, di coloro che hanno un tempo neanche troppo lontano rincorso il sogno e che l’hanno mancato miseramente.
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