Il festival di Cannes 2017 si avvia alla conclusione e, a giudicare dalle impressioni, non si è trattato di un’edizione memorabile: nessuna pellicola sembra aver messo d’accordo tutti e di capolavori neanche l’ombra.
Due anni dopo Carol, Todd Haynes è tornato in concorso con Wonderstruck, adattamento di un romanzo per ragazzi di Brian Selznick, autore tra l’altro de La straordinaria invenzione di Hugo Cabret (da cui il film di Scorsese). La pellicola segue le vicende newyorkesi di due bambini, in epoche diverse, tra cui esiste un qualche misterioso collegamento. Una delle due storie, avendo come protagonista una ragazzina sorda, è girata in bianco e nero come un film muto. L’accoglienza è stata tiepida: come già successo con Hugo, non sempre l’abilità di un grande regista è sufficiente per elevare un materiale che rimane zuccheroso e non troppo interessante.
Un po’ meglio rispetto alle previsioni sono andati gli altri film americani: L’inganno di Sofia Coppola, remake di un classico di Don Siegel in cui un soldato, durante la Guerra civile americana, è soccorso da una famiglia di donne (protagonisti Nicole Kidman e Colin Farrell); The Meyerowitz Stories di Baumbach (Frances Ha), sulle vicende di una famiglia newyorkese che si riunisce per celebrare il padre, con Adam Sandler, Ben Stiller e Dustin Hoffman; Good Time, dei giovanissimi fratelli Safdie, in cui Robert Pattinson si imbarca in una pericolosa avventura a base di neon e musica elettronica per tirare fuori il fratello di prigione.
Numerosissima quest’anno la pattuglia dei registi della crudeltà: Haneke ha portato sulla Croisette Happy End, che segue le vicende di una famiglia di ricche teste di cazzo francesi con sullo sfondo la crisi dei migranti. Sembra il ritorno del regista a soluzioni meno classiche rispetto a Amour, ma le critiche non sono mancate: oltre alle solite accuse di crudeltà, c’è chi avanza il sospetto che lo spessore teorico di film come Niente da nascondere e Il nastro bianco sia lontano.
Tra gli allievi di Haneke è andato meglio Östlund, in concorso con The Square dopo il successo di Forza maggiore. Il film, ambientato nel mondo dell’arte contemporanea, segue la realizzazione di un’installazione e riflette in modo sarcastico su arte, etica e società. Molte sequenze straordinarie, a quanto pare, ma forse la pellicola si perde un po’.
Infine il greco Lanthimos, con The Killing of a Sacred Deer, sempre impegnato a piegare l’angoscia verso soluzione surreali-nonsense. Anche qui Colin Farrell e Nicole Kidman: lui, chirurgo, stringe un legame particolare con un ragazzetto minaccioso: segue apoteosi di disagio e violenza. Qualcuno grida al capolavoro, ma ai più sorge il sospetto che Lanthimos sia ormai prigioniero di uno stile con scarse possibilità di sviluppo e assai poco da dire. Vedremo.
Per il cinema di lingua russa tornavano in concorso Zvyagintsev, con Loveless, e Loznitsa, con A Gentle Creature. Il primo film è incentrato sulle vicende di una coppia che si sta separando, il cui figlio scompare: sembra un’opera inferiore rispetto al precedente Leviathan e in molti si lamentano del tono moraleggiante e dello stile rigido ed eccessivamente didascalico. A Gentle Creature, ispirato a un racconto di Dostoevskij, segue invece il viaggio di una donna che si reca nella prigione in cui è detenuto il marito, di cui non ha più notizie. La pellicola affianca realismo nero e spunti grotteschi, ma in molti avanzano l’idea che Loznitsa sia più portato come documentarista (il suo Maidan aveva vinto il Festival dei Popoli di Firenze nel 2014).
Tra i francesi, quello che è piaciuto di più è 120 battiti al minuto di Campillo, che ripercorre le iniziative degli attivisti francesi di Act Up, nei primi anni Novanta, per sensibilizzare alla lotta contro l’AIDS. I meriti cinematografici del film non saranno forse eccezionali, ma molti gli riconoscono potenza emotiva e sostengono che potrebbe toccare le corde del presidente di giuria, Pedro Almodovar.
Ozon ha portato l’ennesimo film minore, L’amant double, ispirato a quanto pare tanto a De Palma che a Inseparabili di Cronenberg.
Tra gli asiatici, Hong Sang-soo ha portato 2 film: The Day After, in concorso, e Claire’s Camera, fuori concorso. Al solito: amori e corteggiamenti, sequenze che si ripetono, personaggi maschili miserabili, grandi quantità di chiacchiere e alcol, giochi e tic cinefili. La giapponese Kawase ha portato Radiance, l’ennesimo film che non è piaciuto a nessuno. Il coreano Bong ha presentato Okja, storia dell’amicizia tra una bambina e un animalone che è finito nelle mire della solita multinazionale cattiva.
L’ultimo film presentato è You Were Never Really Here, un thriller violento e stiloso dell’inglese Lynne Ramsay, con protagonista Joaquin Phoenix: ennesima pellicola che non mette d’accordo, ma si fanno paragoni (azzardati) con Taxi Driver e Drive. Premio grosso?
Infine, le nostre previsioni per i premi. Al solito, se ne indoviniamo almeno tre sarà stato un successone!
Palma d’oro – 120 battiti al minuto
Gran premio della giuria – The Square
Miglior regia – L. Ramsay per You Were Never Really Here
Premio della giuria – Wonderstruck
Miglior attore – R. Pattinson per Goodtime
Miglior attrice – V. Makovtseva per A Gentle Creature
Miglior sceneggiatura – Loveless
P.S. Senza dilungarci troppo, pare che le cose migliori quest’anno fossero al di fuori del concorso principale: Un beau soleil interieur di Claire Denis con Juliette Binoche, vagamente ispirato ai Frammenti di un discorso amoroso di Barthes (!); Jeannette, musical metal-misticheggiante di Bruno Dumont sull’infanzia di Giovanna d’Arco; The Florida Project, del talento indie americano Sean Baker; L’amant d’un jour di Garrel; Visages Villages della straordinaria Agnès Varda che, a Godard che si rifiuta di incontrarla, riserva l’appellativo di «lurido vecchio sorcio». Viva Godard, viva la Varda!
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