di Caterina Iofrida
Quel che mi scoccia è che, se ho una macchina, lo devo a lui. Quando sono uscita, quella sera, di mio avevo solo i jeans e naturalmente la maglia a righe. Quando la metto mi muovo leggera, non è troppo larga, né stretta, è morbida, non è tanto scollata, così le mie tette, che sono piccole ma belle, non si vedono, ma la loro forma, da sotto quel cotone spesso a righe rosse e bianche, si intuisce perfettamente.
Quella sera all’autodromo abbiamo mangiato lo zucchero filato, gli ho raccontato di quando da piccola l’ho fatto cadere per terra e poi l’ho raccattato e me lo sono mangiato con le mani, spalmandomelo su mezza faccia, e lui ha riso, ma non ha detto niente. Dopo, invece di riaccompagnarmi, mi ha portata nel parco e lì ho capito che qualcosa non andava, ho guardato la statuetta sul cruscotto come a dire “E adesso che succede”, e lei ha guardato me come a dire “Io sono Maria, la Vergine, non chiederlo a me”, e allora ho guardato in basso e c’era la chiave inglese, mi sa che la testa gli fa ancora male.
Chi sa se si è svegliato scemo, il giorno dopo; comunque la macchina non è venuto a chiedermela indietro. Da subito ho iniziato a guidarla come le auto da corsa degli amici che guido all’autodromo, solo che lo faccio in città e corro e a volte la Maria Vergine mi guarda con un’espressione tipo “Io sono di coccio, una frenata e mi fracassi”, ma io me ne frego e cerco di distrarla parlandole di uomini, non di quel Viscidone che l’ha comprata e messa là sul cruscotto, ma di quelli buoni, i tizi con cui sono uscita e con cui a volte nel parco, di notte, ci sono voluta andare io. Non è che siano stati tanti.
Quando ero piccola e la mamma non parlava con me e pensava solo al papà e al giardino, ogni notte mi addormentavo col pensiero che, da grande, avrei conosciuto un uomo e allora avrei fatto le valigie e quello mi avrebbe portata via di lì. Saremmo andati lontano in macchina, di corsa, e nessuno mi avrebbe più detto di studiare o di mangiare o di dormire o di lavarmi o di mettermi le mutande. Forse non le avrei indossate mai più, le mutande: sono scomode.
Mi addormentavo cercando di immaginarmi la faccia di questo tizio a cui non sarebbe importato se mettevo o meno le mutande e che avrebbe mangiato un panino con me alle quattro di notte, seduti sul pavimento in salotto anche se, nel nostro salotto, ci sarebbero state un sacco di sedie. Avremmo lasciato le briciole per terra perché a lui, come a me, non sarebbe fregato nulla delle briciole e la nostra casa sarebbe stata così lontana da quella della mamma e del papà che loro ci avrebbero messo giorni a venirci e noi, da loro, non saremmo mai andati. Li avremmo visti una volta l’anno e quella volta mi sarei anche divertita e magari la mamma, le briciole, non le avrebbe viste. Poi sono diventata grande e nessun uomo, nemmeno quelli buoni con cui andavo al parco, si decideva a portarmi via, e allora sono venuta via da sola, ho trovato un lavoro e una casa, ma non sono andata lontano e la mia vita non è come la sognavo di notte, da piccola. Sarà perché non mi ha portata via un uomo? Questo è quello che pensa la mamma. Lei, però, non ha mai capito granché. Per questo vivo meglio nella mia casetta piccola che nella sua, che è grande, e a volte i panini alle quattro di notte me li mangio e ascolto il silenzio e penso a quanto ci sto bene, sulle mattonelle, di notte, con il mio panino e con nessuno a dirmi di sedermi a tavola. Ma non posso farlo spesso perché se dormo poco poi non mi sveglio in tempo e faccio tardi al lavoro e là mi becco un rimprovero ed è come a casa di mamma, mi dicono che cosa fare e quando posso andare in bagno o mangiare e devo anche mettere sempre le mutande.
Quando esco dal lavoro vado subito all’autodromo e salgo in macchina e corro e quando vado forte, per un momento, mi sembra di essere diretta lontano, in un posto dove non ci si preoccupa di niente, come in quei sogni di bambina. Ma la corsa dura troppo poco e mi intristisco sempre un po’, dopo.
Da qualche tempo, però, ho conosciuto questo tizio che è di certo uno dei buoni e indossa una maglia a righe bianche e rosse quasi uguale alla mia, salvo che le righe sono più larghe e ha un colletto con i bottoni. Ha riso quando ha visto la statuetta sul cruscotto, al volante c’ero io – lui ha una paura matta di guidare – e gli ho detto che quelle statuette andavano di moda qualche anno fa, ma lui continuava a ridere, poi ha smesso e mi ha chiesto di andare più piano. È proprio buffo quando ha paura e poi, a differenza del Viscidone, lui una statuetta della Maria Vergine non la comprerebbe mai. Invece spende un sacco in fotografie di uccelli e li studia, per il suo Progetto Segreto, che sarebbe che si sta costruendo un paio di ali. È così concentrato su queste ali che non vuole che lo tocchi, figurarsi andare al parco, finirei per distrarlo dal Progetto, io invece non faccio che pensarci, al parco di notte e alla sua maglia a righe e alla mia e a toglierle tutte e due. Gli dovrei proporre di scambiarcele. Magari, dopo, lui guiderebbe con l’acceleratore a tavoletta e le ali le metterei io, lui non avrebbe più paura e io scomparirei tra le nuvole, con indosso solo la maglia a righe. Gli uccelli non portano le mutande.
Rispondi