Il giorno prendeva vita con una lentezza commovente.
Lo faceva sulle chiome gialle dei tigli che le parevano stelle esplose dalle arterie nere che uniscono il cielo al sottosuolo.
Il tempo che il suo sguardo impiegava ad abituarsi al cambio di luce lei lo usava per sondare con le mani i vari oggetti che aveva raccolto nelle tasche del cappotto: un biglietto dell’autobus piegato in quattro, un burro di cacao, il laccio integro della scarpa sinistra – che non aveva buttato via, probabilmente nella speranza che trovasse un’identità che non dipendesse dal laccio destro, tranciato qualche giorno prima –, il biglietto di un film, La grande bouffe – ricordava di aver pensato che era stata una pessima idea non aver cenato prima di entrare in sala –, un fazzoletto di stoffa fradicio con due iniziali ricamate, L C, uno spazzolino da denti di legno con le setole ancora umide.
Guardava dritto di fronte a sé i camini delle case che sbucavano oltre i confini verdi del parco, e li contava; cercava di non offrire spazio nel campo visivo all’ombra esanime distesa ai suoi piedi, e anche di non insozzare la dimora dell’alba con l’odore del sangue che ancora non le aveva abbandonato le narici.
Faceva freddo.
E tirava un alito di vento abbastanza forte da spostare solamente le estremità più leggere del mondo, come i capelli, oppure le foglie, o anche i fili bianchi dei ragni che avevano bisogno di mangiare. Pensò lei stessa di avere fame; pensò anche che fossero molti giorni che non vedeva un cielo così azzurro; la luce del mattino le fece venire voglia di piangere, eppure non pianse.
Iniziarono lentamente ad arrivare i dolori. Una fitta costante alla nocca dell’indice sinistro, una mano invisibile che le premeva violentemente la nuca, il ginocchio destro era caldo e lo sentiva gonfio. Scoprì la mano e osservò l’indice: non capiva da dove venisse il dolore, non era soltanto la nocca; strizzò il polpastrello con il pollice e vide una goccia di sangue uscirle da sotto l’unghia, che si sollevò leggermente, e farsi strada verso il palmo come una goccia di vino cola lenta sul collo di una bottiglia. Leccò il lato dell’indice esattamente come avrebbe fatto con il collo della bottiglia e quel sapore le fece venire i brividi, le fece tremare ancora le gambe. La vertigine le fece chiudere gli occhi e, invece del buio, vide la mano di lui, la vide bianca come era stata la sera prima, le unghie che riflettevano le luci dei lampioni; la vide incurvata come un artiglio che cercava di prendersela.
La sentì sul collo, la sentì graffiarle l’addome.
Si ricordò dell’estate di qualche anno prima, quando le era capitato di inseguire un serpente. Era nero con punti bianchi che si incrociavano tra loro a ogni ansa che il suo corpo formava tra le rocce.
Quella volta era stata lei ad aver teso la mano: aveva seguito la bestia fino a spingerla dentro un foro sotto una radice, l’aveva guardata negli occhi e aveva notato che quelli erano gialli esattamente come i capelli biondi del dio serpente Quetzalcoatl, il Serpente piumato, oppure il Serpente prezioso, o il Gemello prezioso, o ancora Spirito del vento, oppure semplicemente il Vento, e che la fissavano. Poi aveva fatto quel gesto, aveva formato un artiglio verso il foro: forse perché voleva possedere la sua grazia, sentirsela addosso, o forse lo aveva fatto soltanto per dare un senso alla fatica della caccia. Ricordava di non aver visto niente di quello che era accaduto dopo, perché era stato troppo rapido: una scintilla di dolore al polpastrello, un brivido lungo la schiena, la gola immediatamente secca. Ricordava di avere alzato il dito di fronte a sé, e averlo osservato immacolato per qualche secondo, poi aver visto due gocce di sangue uscire da due fori.
Ricordò anche di aver avuto paura, di aver guardato l’acqua scorrere limpida, e aver iniziato a respirare affannosamente perché il dio serpente l’aveva morsa, ma soprattutto perché non poteva essere cacciato. Aveva avuto voglia di piangere anche quella volta, piccola e insignificante come era di fronte a quella vitalità.
Poi si era arrotolata il laccio della scarpa attorno al dito per bloccare il veleno, e fortunatamente aveva scoperto che non c’era nessun veleno in quel morso.
L’alba di quella mattina, invece, le aveva portato il dolore alla schiena; le facevano male anche le labbra: le aveva strofinate troppo con il fazzoletto, il burro di cacao non era servito a niente. Le facevano male i denti. Le era rimasto un residuo spesso, tra l’incisivo e il canino, ed era riuscita a toglierlo con l’unghia: un brandello biancastro e duro che pensò essere una piccola parte di un muscolo, o di una vena, o di pelle.
Il glissare silenzioso di poche nuvole bianche sul fondo azzurro del cielo fu inquinato dagli ululati delle sirene e dai neon blu che lampeggiando si prendevano tutti i colori dell’autunno; lei smise di guardare il rimasuglio di carne con i suoi occhi gialli e li abbassò verso il corpo di lui, immobile ai piedi della panchina.
Fissava l’aria con la gola completamente aperta.
Estrasse dalla tasca il laccio sinistro e lo strinse attorno al dito del ragazzo. Era rigido ormai, e freddo.
Negli ultimi istanti della propria vita lui, invece, aveva pianto. Era stato un pianto rotto e disperato: aveva soltanto visto calare su di sé la notte, e capito, ormai troppo tardi, che nessuno può cacciare il Vento.
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