L’8 novembre 1980, a poche ore dalla morte dell’attore Steve McQueen in una piccola clinica di Ciudad Juarez, Messico, Michael Seiler e Wayne Warga scrissero sul Los Angeles Times:
“McQueen was one of the film industry’s biggest draws. Like Paul Newman, Robert Redford and Clint Eastwood, he had that special quality of manliness that women found attractive and men admired. But he was different from the others. He seemed somehow less complicated than Newman, more rugged than Redford, less wooden than Eastwood”.
Nella clinica Santa Rosa, al di là del fiume Rio Grande, di fronte a El Paso, il dottor Cesar Santos Vargas racconta come sono andate le cose mentre suo fratello Oscar esegue l’autopsia sul corpo dell’attore. Ci impiegherà una trentina di minuti.
Un uomo, racconta Cesar, è arrivato in clinica mercoledì verso le 17. Riusciva a malapena a camminare nonostante il bastone con cui si accompagnava e aveva il ventre più gonfio di una donna incinta. Sulle carte si è firmato col nome di Samuel Sheppard.
L’operazione per rimuovere l’enorme massa tumorale è iniziata giovedì mattina alle 8 e è finita tre ore dopo. Al risveglio l’uomo ha alzato debolmente un pollice e ha detto lo hice, “ce l’ho fatta” in spagnolo.
Barbara, la sua terza moglie, è rimasta tutto il pomeriggio a fianco del letto passandogli cubetti di ghiaccio da sciogliere in bocca, mentre Chad e Teri, i figli ventenni del primo matrimonio, trattenevano a stento le lacrime.
È morto nel sonno quella stessa notte, verso le 3, con vicino l’amico Sammy Mason, istruttore di volo, che aveva appena dato il cambio alla famiglia.
È buffo, aggiunge il dottor Santos, il nome Samuel Sheppard l’ha preso da un tizio di Cleveland che fu accusato in due famosi processi di aver ucciso la moglie. Era un osteopata, mi pare, aggiunge. Alla fine fu assolto.
Santos pensa che la causa del tumore di Samuel Sheppard, cioè di Steve McQueen, siano i due pacchetti di sigarette che fumava ogni giorno. In realtà il mesotelioma pleurico che ha colpito il polmone destro del divo americano è stato causato dalla ripetuta esposizione all’amianto presente nelle tute ignifughe che usava nelle corse automobilistiche, la sua vera passione.
Già quando era nei Marines, il laconico attore dagli occhi blu aveva incontrato questo fillosilicato fibroso: era nei rivestimenti isolanti dei tubi delle navi. Una fibra di amianto (anche detto “asbesto”, inestinguibile) è 1300 volte più sottile di un capello umano e non esiste una soglia minima di pericolosità quando lo si inala.
La prima nazione a bandirlo è stata l’Islanda nel 1983, tre anni dopo la morte dell’attore cinquantenne, la star de La grande fuga e Il caso Thomas Crown, di Blob – Fluido mortale e Papillon, il cui corpo viene messo in una bara standard di legno chiaro e trasportato all’aeroporto internazionale di El Paso dentro una vecchia Ford LTD.
In macchina ci sono il signor Prado (l’impresario delle pompe funebri), un suo assistente e Carlos Rosales, un fotografo del Times. Le ruote davanti cigolano.
In vita Steve McQueen aveva comprato moltissime macchine. Una Lincoln del ’31, una Chevrolet del ’52, numerose Porsche, Jaguar, Ferrari, ma non era mai riuscito a comprare la Ford Mustang GT 390 che guidava in Bullitt.
Era diventato l’attore più pagato di Hollywood ma si considerava un pilota professionista. Aveva fatto molte gare – Phoenix, Del Mar, la 12 ore di Sebring – eppure quella che sentiva nella velocità folle e negli schianti, nei testacoda e nelle lamiere accartocciate, non era mai la paura di morire; anzi, quasi il contrario.
La morte, in effetti, “the King of cool” l’aveva temuta soltanto due volte. La prima dopo che Manson aveva ordinato il massacro di Cielo Drive includendo il suo nome nella lista delle vittime. Solo la pigrizia e una donna lo avevano tenuto lontano dal luogo del massacro quella sera in cui Hollywood era diventato un posto strano, ma da quel momento si fece rinnovare il porto d’armi a Palm Springs e comprò una .44 Magnum che teneva sempre infilata nei pantaloni.
La seconda volta che aveva avuto paura della morte fu alla fine delle riprese de Il cacciatore di taglie, il suo ultimo film, quando una biopsia aveva trovato che le recenti difficoltà respiratorie erano dovute a un mesotelioma.
Incurabile, era la prima parola. Tre mesi, le seconda e la terza. Steve McQueen non aveva detto nulla a nessuno, almeno all’inizio. Era andato dal dottor William Donald Kelley, un dentista che aveva brevettato una cura per il cancro a base di clisteri di caffè, beveroni di noccioli di albicocca e iniezioni di sangue di pecora che praticava senza licenza in Messico dopo essere stato bandito dagli Stati Uniti.
La cura costava 100mila dollari al mese. El que quiera pescado, que se moje el culo, aveva detto una volta un suo amico di Tijuana. Le stesse parole che usa adesso Rosales, mentre la Ford LTD sferraglia sulle piste dell’aeroporto di El Paso: il signor Prado ha eccepito sul modo che il paparazzo del Times ha di guadagnarsi da vivere.
Poco dopo ulula il cielo e atterra un aereo privato. Tre amici del defunto scendono dall’aereo e caricano la bara, uno di loro si avventa su Rosales e gli strappa di mano la macchina fotografica dopo che ha scattato l’ennesima foto. Gliela spacca in terra dicendogli che Steve gli avrebbe spaccato anche il culo. Poi risale sull’aereo e l’aereo riparte.
Era fatto così Steve. Del resto era stato quasi due anni al riformatorio di Chino. Era stato un marinaio su al nord, un operaio in un giacimento petrolifero a Waco, un imbonitore da fiera itinerante – attraversavano il Grande Paese come un circo – un taglialegna in Ontario, persino un garzone in un bordello, oltre che un pilota e un attore.
In un’intervista del ’66, alla domanda su cosa volesse dalla vita, Steve McQueen aveva risposto: “I just want the brass ring and the pine trees and my kids and the green grass”.
Secondo le sue istruzioni non si tenne alcun funerale. Non fiori ma opere di bene per i ragazzi di Chino.
Le sue ceneri furono sparse dal Cessna 172 dell’amico Sammy Mason a largo dell’Oceano Pacifico.
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