Alle 11 in punto – cascasse il mondo, si erano detti – un padre incontrò il suo figlio decenne davanti all’Oliver’s City Tavern, il loro posto preferito in tutto il West Village. Principale motivazione (oltre alla cruciale presenza di un vero caminetto, con un vero fuoco scoppiettante dentro): gli hamburger erano grondanti e sugosi e le patatine erano anche meglio di quelle di McDonald’s.
Per ammissione di tutti, padre e figlio erano l’uno la copia sputata dell’altro. Persino le labbra si tendevano nello stesso sorriso reticente e gli occhi, seppure di colori diversi, brillarono allo stesso modo strizzati nelle guance quando il padre performò una versione particolarmente ispirata della sua camminata buffa, un vecchio classico anche noto come “i passi giganti della feroce bestia felpata”.
In generale, i loro colori stavano bene con l’inverno: le foglie marroni, i prati verdi, i cieli plumbei o completamente bianchi si sposavano perfettamente con le lentiggini arancioni e i capelli rossi che entrambi sfoggiavano arruffati e noncuranti sopra le sciarpe a pallini o a righine, mentre era più difficile immaginarli su una spiaggia tutta ombrelloni di Miami, ma non si può mai dire.
«A volte uno è così felice che si sente più alto, ci hai mai fatto caso Phil?» disse il bambino rivolto al padre mentre questi si liberava del pesante giubbotto di cammello passandolo al cameriere.
«E vorrei dire che sentendosi più alto, uno in qualche modo lo è, più alto».
I due si misero a sedere atteggiandosi a lord inglesi. Quindi, sistemandosi degli occhiali invisibili sul naso (un monocolo, nel caso del bambino): «Una torta di granchio e dei tacos grandi così» disse Phil al cameriere, «il nostro Coop oggi è più alto che mai!».
Coop scoppiò a ridere; il monocolo cadde e si ruppe in mille pezzi.
Poi Phil ordinò della Pepsi alla vaniglia e si trasformò in un granchio Jumbo del Maryland facendo schioccare le chele pericolosamente vicino alle orecchie di suo figlio.
«E così Tallulah ha oscurato il tuo fuori campo, incredibile ma vero».
«Una settimana di follie per la famiglia Hoffman» confermò Coop, e con le mani rappresentò quel complesso di fonemi muovendo le dita in maniera asincrona davanti a sé – c’è un gesto simile per “neve che cade” – e contemporaneamente alzando le braccia sopra la testa.
«Ci manca solo che Willa impari una lingua nuova nel sonno e siamo a posto».
«Willa è ancora convinta che una stella cadente possa cascarle addosso. È tipo realmente spaventata».
«Coop, Willa ha cinque anni e se tu le dici che ci sono le stelle cadenti la reazione più logica è: e dove arcidebbolina cadono le stelle cadenti? Mettiamoci al R-I-P-A-R-O!»
«No, dico sul serio! Di notte cammina guardinga, si stringe alle gambe di mamma. È tipo diventato difficile spostarsi fuori da casa dopo il tramonto».
«È perfettamente logico. È così pulito e cristallino che Wittgenstein in persona tornerebbe in vita per stringerle la mano».
Una signora si sistemò la crocchia di capelli bianchi e sorrise a tutta bocca guardando il proprio riflesso sulla vetrina del ristorante senza fare caso alle persone dentro, come negli specchi della polizia.
«Non le passa neanche per la testa di esprimere un desiderio come fanno tutti, anche perché esprimerebbe di non essere colpita da una stella cadente…»
«Lo schivo autore del Tractatus logico-philosophicus uscirebbe dalla bara, scaverebbe un angusto ma sufficientemente largo cunicolo con le mani scheletriche e una volta fuori chiederebbe indicazioni per casa nostra, così da poter incontrare Willa e stringerle la mano»
A volte gli assi oculari di Coop si disallineavano, ma era difficile dire quando o in relazione a che cosa. Uno degli occhi continuava a guardarti dritto in faccia mentre l’altro si rivolgeva appena verso l’esterno, tirato da una lenza invisibile. Era come se una parte di lui si stesse alienando dalla conversazione, e tu provavi l’inedita sensazione di avere un circo di pulci danzanti sulla spalla, una cosa piccolissima e ridicola ma impossibile da non guardare.
Il disallineamento conferiva a Coop un’aria trasognata.
«Ma forse lei signore non sa con chi ha il piacere di parlare…» riprese Phil cercando di riacciuffare l’attenzione di suo figlio come se fosse un pulcino saltato fuori dal cesto. «Ma che dico il piacere, l’onore!»
E subito si alzò di scatto provocando uno scossone del tavolo [violento rollio e conseguente stasi delle Pepsi alla vaniglia] e lanciò lo sguardo oltre l’orizzonte boschivo, sulle svettanti montagne che cingevano la nazione.
«Comandante delle forze ribelli del tredicesimo distretto Plutarch Heavensbee, al suo servizio!»
Seguì un breve inchino.
Non sapendo bene come si salutava un comandante delle forze ribelli Coop si inchinò a sua volta e fece anche una giravolta.
«E quando mi porti sul set, Phil?»
«Il set è ad Atlanta Coop, anche nota come la città più brutta del mondo», disse Phil ritornando Phil e sistemandosi il ciuffo di capelli unti col solito gesto brusco.
«Ma io non voglio vedere Atlanta, voglio vedere il set. E poi così avrei tipo modo di stare un po’ con te, papà».
Scoppiettò il fuoco nel caminetto poco distante, e ogni volta era un miracolo vedere il più apocalittico e distruttivo dei quattro elementi incatenato e asservito agli umani servizi, ridotto a grigliare costoline di maiale e würstel.
A proposito: finalmente arrivò il cibo.
Si dica che la torta di granchio era incredibile. Per economia di parole diremo soltanto che i tacos erano enormi, una cosa inimmaginabile, e che il cheddar sciolto che ne fiottava fuori portava con sé una profusione di jalapeños a fettine, trito di cipolle caramellate e coriandolo e rivoli di squisita panna acida.
Coop succhiò una chela di granchio nel silenzio che nasce sempre all’inizio di ogni banchetto sacro.
Sporcandosi la barba delle suddette delizie, Phil vide occhieggiare sulla panca accanto a sé una copia del NY TIMES. Era piena di ditate. La prese istintivamente e iniziò a sfogliarla svogliato prima sulla panca e poi sul tavolo, ricavando un po’ di spazio tra i piatti, quasi che non ci fosse una vera scelta tra la possibilità di essere aggiornati dei fatti del mondo e una cinica resa all’indifferenza.
A pagina 7, dopo alcune frettolose delucidazioni sulla conferenza di Ginevra (si era finalmente ottenuta un’intesa sulla crisi siriana), dopo il freddo record registrato in una cittadina del Montana (-53°C) e le anticipazioni sugli imminenti Giochi Invernali di Soči, Phil trovò il necrologio di un attore. Un altro si aggiungeva alla stele.
(Segue da pagina 1):
L’attore è morto mercoledì per un’overdose da eroina, cocaina e benzodiazepine, dopo un passato di dipendenza. Pulito per ventitré anni, Philip Seymour Hoffman era ricaduto un anno fa nella dipendenza senza apparenti motivi, se non quelli che l’esistenza a tutti mette a disposizione. Il più talentuoso attore della sua generazione si trovava nell’appartamento inizialmente comprato per provare le parti. Qui, ad appena due isolati dalla casa dove viveva con la famiglia (Philip Seymour Hoffman lascia due figlie piccole e un figlio maggiore, oltre alla compagna), è stato ritrovato esanime da un amico a cui non aveva risposto al telefono dopo che quella mattina non si era presentato a scuola per riprendere i bambini. Ancora, nella vena blu, rivolta verso il cuore, la siringa.
Questa immagine inutilmente poetica sfarfallò nella stanza come una falena sorpresa dal giorno.
Phil alzò lentamente la testa dal giornale e si accorse del sole radente che stava entrando di soppiatto dalle vetrate. Avanzando con passi di mosca sul pavimento, arrampicandosi alle pareti, l’orda implacabile dei fotoni conquistava tutto, quadri, carta da parati, inglobava ora una saliera, ora una bottiglietta di ketchup, e faceva brillare le posate.
Il cielo si era aperto.
Poi dalla cucina arrivò lo scampanellio insistente di una comanda pronta per la sala e Phil ripensò a quando da bambino, di domenica, andava alla messa coi suoi genitori. Al momento dell’eucaristia, per sottolineare ogni passaggio del rituale, frasi e gesti ripetuti identici nei secoli, il chierichetto suonava un piccolo campanellino, lasciando che le navate della chiesa ne assorbissero fino all’ultima vibrazione. Tin tin tin: e il pane diventava carne. Tin tin tin: e il vino diventava sangue. Non per metafora, ma per davvero, questo era il punto.
Forse aveva deciso allora di diventare un attore.
«Tutto bene?» chiese il cameriere, che era in piedi accanto al tavolo su per giù da duecento anni.
«Questo giornale è sporco di mostarda» constatò Phil senza il minimo rimprovero nella voce.
«Intendevo con il pranzo».
Phil allora si girò verso Coop che aveva costruito un imbuto usando dei tacos e ci stava letteralmente versando dentro la salsa rimanente nel piatto.
«Futto fene, graffie» confermò.
Phil si voltò di nuovo verso il cameriere, si rimise gli occhiali invisibili e tornò a leggere il suo nome.
Rispondi