Fin da piccolo ho sempre avuto una mente matematica. Numeri, insiemi, figure geometriche: mi piacciono quelle cose lì. Qualche sera fa, mentre ero al cinema a vedere Animali notturni e il film si trascinava stancamente tra un cliché e l’altro, ho cominciato a pensare ai triangoli, e mi sono distratto un po’.
Ai vertici del triangolo, tre location ideali, tre luoghi dell’immaginario: Los Angeles, New York, il Texas. La Los Angeles delle ville moderniste sulle colline, dietro le cui vetrate abitano personaggi ricchi e vuoti e nevrotici (1). La New York delle opportunità, del futuro che è a portata di mano (2). Il Texas dei grandi cieli, dei paesaggi western e dei duri che si fanno giustizia da soli (3).
Poi, i lati del triangolo: tre storie, ciascuna delle quali unisce due luoghi. Un racconto di violenza ambientato in Texas, la cui lettura turba le notti losangeline di Amy Adams (1). I ricordi di una storia d’amore nata a New York e finita tragicamente in Texas (2). Infine, un presente fatto di tristi telefonate notturne tra NY e LA (3).
Dentro la prima storia, un ulteriore danza di triangoli: una famiglia in viaggio – padre (1), madre (2), figlia (3); tre balordi (1, 2, 3); come sciogliere l’intreccio? avremo bisogno di un padre disperato (1), un giustiziere senza niente da perdere (2) e un cattivone da punire (3).
Dentro la seconda storia, un’overdose di originalità – «il triangolo no, non l’avevo considerato!» – lui (1), lei (2), l’altro (3).
Dentro la terza storia, siamo alle solite: lei (1), l’altro (2), l’altra bonazza (3); anzi no: lei (1), la figlia (2), il bonazzo che è con la figlia (3); oppure, se preferite, lei (1), lui che forse viene forse no (2), il bicchiere di whisky che invece è sempre una certezza (3).
Poi un paio di inquadrature stilose, di quelle che fanno tanto «autore»: lui inquadrato dall’alto, sdraiato obliquamente come un’ipotenusa (1) che unisce i due lati dello schermo (2, 3), affogato in una luce caldissima; lei, l’animala notturna, inquadrata nello stesso modo ma specchiata rispetto all’asse verticale, nella glaciale penombra della stanza. «Edward…» sussurra.
Improvvisamente, complice l’ennesima visione de Il ladro di orchidee, pochi giorni prima, mi balena il sospetto che Tom Ford abbia seguito uno di quei seminari per aspiranti sceneggiatori in cui ti riempiono di ricette per realizzare lo script perfetto: nel dubbio, una manciata di luoghi comuni ravviva i sapori.
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