Hu Bo era un ragazzo cinese di 29 anni. Nell’ottobre del 2017 ha deciso di farla finita, lasciandoci come biglietto di addio un film d’esordio lucido e disperato. Un’opera che è insieme un urlo di sfida e uno sguardo senza speranza sulla Cina di oggi.
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Quando apro gli occhi l’autobus è fermo da qualche parte nel cuore della notte. Sui sedili intorno a me i compagni di viaggio continuano a dormire, il respiro pesante e le teste abbandonate sui sedili. Infilo la giacca, tiro su il bavero e scendo. Fuori l’unico rumore è quello del motore, che l’autista ha lasciato acceso. I fari dell’autobus rischiarano uno squarcio di asfalto polveroso. Pochi passi oltre, una pensilina di plastica e metallo arrugginito.
Frugo nelle tasche ed estraggo un pacchetto di fiammiferi. Ne accendo uno e lo lascio cadere a terra. Per qualche secondo continua a bruciare sull’asfalto, poi si spegne e scompare dalla vista. Immagino che abbia lasciato a terra una qualche traccia scura, un segno del suo passaggio, un’ombra nera in cui la sua luce è affogata. Nel buio della notte, sull’asfalto scuro, di quel segno non vi è però traccia. Alzo gli occhi verso l’autista, che fuma in silenzio a qualche metro di distanza, e provo a lanciargli un cenno di intesa. Lui si stringe nelle spalle e rivolge lo sguardo altrove.
Mi chiedo quanto manchi ancora all’arrivo e mi rendo conto solo in quel momento di non avere né un orologio né un telefono su cui controllare l’ora. Il pannello sul fronte dell’autobus recita: Manzhouli.
C’è un elefante, al circo di Manzhouli, che passa le giornate immobile, seduto sulle proprie zampe. La gente accorre per guardarlo, lo chiama, lo sprona a muoversi, lo punzecchia, grida nel tentativo di ottenere una reazione. Ma lui rimane lì, lo sguardo perso nel vuoto. C’è chi dice che il troppo dolore lo abbia inebetito, chi crede che quella passività sia beatitudine. Qualcuno mormora sottovoce che sia morto, e che forse ancora non l’abbia capito. Sia come sia, ho deciso di venire anch’io a Manzhouli, per tentare di trovare negli occhi della bestia qualcosa che immagino di aver dimenticato, qualcosa in cui sprofondare in silenzio.
Quando riemergo dai miei pensieri mi rendo conto che l’autista è risalito al volante. Sussulto all’idea di rimanere in mezzo al niente, solo, e mi affretto verso le scalette dell’autobus. Una volta a bordo sento improvviso un vortice di stanchezza che sale dalle ginocchia. Mi affretto giù per il corridoio verso il mio posto, barcollando e sbattendo contro gli altri sedili. Urto un passeggero e faccio per scusarmi, ma lui non sembra reagire. L’autista ingrana la marcia; il movimento dell’autobus mi fa inciampare e franare addosso a un altro passeggero. Mi rialzo biascicando delle scuse, sempre meno capace di rimanere in piedi. Anche in questo caso, però, il mio compagno di viaggio non mostra reazione alcuna. Fisso per un momento i suoi occhi: nonostante la mia caduta, non si sono neppure aperti. Con le ultime forze mi trascino fino al mio sedile e chiudo gli occhi. Finalmente ho capito.
Meravigliosamente triste