Vivan Maier, dicevamo lasciando la sala del cinema, non ho mica capito se facesse delle belle foto, ma non potrai negare che non abbia una bella storia.
Bah, un bel look, vorrai dire.
Ecco il punto, aggiungevamo, è che ci piace troppo pensare che tra la nostra robaccia nei cassetti, tra i nostri bigliettini delle scuole elementari e medie, tra i nostri diari segreti ci sia qualcosa di pazzesco che è solo in attesa di venir scoperto, rivalutato, che un giorno verrà in cui sarà non dico apprezzata, ma considerata.
Che tra cento anni quella nostra registrazione in formato midi, la nostra canzone registrata malissimo sarà una hit prima in classifica dall’altra parte del mondo.
Fa bene al morale.
Invece a me la cosa mi terrorizza ( e sono uno che scrive parecchio a giro, per dire).
Mi viene voglia di tornare a casa e bruciare tutto, questa volta davvero, poi passare nella casa dove sono cresciuto, tornare nella casa dove sono nato e distruggere tutti i fogli e quadernini che mia madre ha classificato con cura, anzi per evitare che i documentaristi finiscano a curiosare dappertutto, bruciare l’intera casa, e dopo aver fatto questo passare a sterminare tutti i mie conoscenti, quelli più alla lontana e poi gli intimi, le persone che ho ferito e ho umiliato da bambino, le fidanzate abbandonate e tradite. Tutti. Un lento processo di distruzione di ogni traccia.
Poi il compito più difficile: il viaggio negli Stati Uniti, fino alla costa East, fino a Los Angeles dove si trovano i computer di Google, gli enormi sotterranei che contengono i magazzini con la loro sterminata memoria. Passare mesi là nei dintorni, capire gli orari della sorveglianza, farmi assumere in un negozio di caffè, e riuscire infine a introdurmi dentro gli enormi archivi virtuali. Accedere ai computer che tutto sanno di me, esaminare la memoria del mio stesso computer, visionare le mie mail, le mie ricerche su google, i singoli messaggi scritti a caso a chiunque, e fare piazza pulita di tutto.
Per non corre rischi postumi che la mia opera possa essere esposta al pubblico dominio, al pubblico apprezzamento, e sopratutto ai commenti inutili a uscita sala:
Certo che per essere un film su una fotografa ha un direttore della fotografia veramente di merda; oppure: Certo che il mercato dell’arte è terribile, oppure: Certo che era strana parecchio questa Vivian Maier, mi ricorda mia sorella.
Il diritto all’oblio, in alcuni casi, è quasi un dovere.
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