Sulla parete dietro al bancone del bar, a destra di un palco di alce largo almeno un metro e mezzo ricoperto interamente da un denso strato di polvere, era fissato un orologio che segnava le cinque quando alzai gli occhi per controllare l’ora. Il barista mi disse tre nomi: Marvin Nelson, Neil Garcia e Logan Workman. Disse che sarebbero arrivati tutti intorno alle sette e trenta, finita la cena. Può stare certo che verranno, disse. Pensai che dei musicisti che alle sette e trenta, dopo ogni cena della loro vita, si ritrovavano al bar per bere non potessero essere dei buoni musicisti. È sicuro che non ci sia qualcuno che posso fotografare prima che faccia buio? domandai. La luce, dissi, e indicai la finestra. Mi guardò e sbuffò, poi guardò a sua volta fuori dalla finestra. Il Belga, rispose. Abita in una casa di legno marcio al Little Green Lake. Dicono che sia il miglior suonatore di banjo del Paese, ma non l’ho mai sentito con le mie orecchie, disse. Deve seguire la strada fino al bivio per Netville, e svoltare a destra; dopo un chilometro si fermi alla stazione di servizio e chieda del Belga, le diranno con precisione quale sentiero prendere.
Ringraziai, pagai con una banconota da cinque e lasciai il resto, inghiottii l’ultimo sorso e uscii. Disse buona fortuna.
Entrai nell’auto e abbassai il finestrino per orientarmi meglio. Posai la macchina fotografica sul sedile del passeggero e mi diressi al bivio per Netville.
Il Belga abitava a trecento metri dalla sponda sud del lago. L’acqua che si vedeva in lontananza era verde come l’erba tenera che cresce in primavera e a quell’ora del giorno i raggi del sole ancora ne illuminavano la superficie. Nel cortile vi erano alcuni bidoni arrugginiti riempiti fino all’orlo con fascetti di legni sottili e stecchi marci, ammuffiti. Doveva piovere molto. Salii le scale fino alla veranda e alla porta d’ingresso. Le assi dei gradini erano disallineate e attraverso le suole capii che il legno si era bagnato, seccato, imbarcato, ribagnato, riseccato, reimbarcato un centinaio di volte almeno. Lo stesso valeva per le assi della veranda, infradiciate dalla pioggia a vento, le assi delle pareti, le assi del tetto, le gambe della sedia a dondolo.
Bussai.
Chi è? disse lui. Aveva la voce di un vecchio. Io domandai se era permesso? Chi è, ripeté. Sono un fotografo, dissi, sono venuto a chiederle… Non ho tempo. Non le ho neanche detto che cosa vorrei proporle e perché sono venuto fin qui, dissi. Non m’importa, disse, non ho tempo. Dissi che almeno avrebbe potuto guardarmi in viso ed entrai. Ho detto, maledizione, che non ho tempo. Mi guardò.
Era un vecchio con la barba grigia, gli occhi piccoli e incassati fino in fondo alle orbite. I capelli erano spessi come le setole di una spazzola per scarpe e bianchi e giallastri. Indossava un gilet di pelle, una camicia rigida e dura persino alla vista e un paio di jeans chiari. Senta, dissi, mi dia la possibilità di sentirla suonare. Ghagahgahga, rise scompostamente. Posò la latta sul tavolino di fronte a lui. Si sedette. Io non suono, disse. Al bar di Bullcross mi hanno detto che lei è il miglior suonatore di banjo del Paese, dissi. Ragazzino, disse lui, sei duro d’orecchi? Mi stia a sentire, se lei ora suona, io le assicuro che farò qualcosa di altrettanto bello, dissi. Vidi il banjo adagiato sul divano di pelle marrone consumata dalla sua schiena rigida e dai gomiti sporgenti. Lo indicai. Lui mi fissò. Mi riporterai mia figlia e mia moglie dalla prigione in cui sono finite? disse. Me le riporterai, ragazzino?
Non potevo aiutarlo, ma comunque parlai perché in un certo senso non volli ammettere quanto fosse ridicola la mia posizione di fronte a quell’uomo. Non ne sono in grado, ma posso portare lei a qualche figlia o moglie rimaste senza un uomo, dissi.
Il Belga abbassò lo sguardo e stette in silenzio per una ventina di secondi. Io ero in piedi all’ingresso, non avevo ancora mosso un solo passo. Iniziò a piangere; singhiozzò. Poi tremò; si scosse, digrignò i denti più volte e la bava gli colò sulla barba grigia e si mischiò alle lacrime. Piccola aiutami, disse, aiutatemi, gridò.
A me, allora, tremarono le mani. Mi scusi, dissi. Feci per andargli incontro. Lui mi guardò e tese il braccio alto verso di me, tenendo il pugno serrato. Vattene, ora, disse. Mi scusi, la prego mi scusi, dissi una seconda volta, e me ne andai. Corsi scompostamente lungo il sentiero e montai in macchina. Poi abbassai il finestrino.
***
Sul cortile regnava il silenzio, ogni tanto qualche ramo spostato dal vento emetteva un suono simile allo scricchiolare del legno di quella casa in cui il vecchio, solo, stava riverso sul tavolo del salotto, di fronte all’ingresso. L’acqua del lago non rifletteva più i raggi del sole e il motore dell’automobile di quel giovane fotografo impudente non si udiva più da qualche minuto. Il vecchio si alzò con difficoltà dalla sedia e un filo di saliva colò dal labbro inferiore fino al pavimento. Si asciugò le lacrime con il risvolto della manica e si seccò gli occhi e le labbra nascoste dalla barba. Tremava ancora, leggermente. Tirò un profondo sospiro, poi si sedette sul divano e imbracciò il banjo.
Quella sera suonò più a lungo delle altre.
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