Ogni volta che mi siedo alla mia cattedra, sospiro: mi serve per mettere un momento intero positivo tra quello che sono realmente e quello che sono per gli altri. Le persone che mi conoscono pensano che io sia un genio della matematica, compresi i miei studenti che mi fanno domande come se fossi il depositario della verità sui numeri e quindi potessi dare tutte le cifre corrette alle loro insicurezze algebriche, ma la proporzione tra quello che so e quello che non so dà come risultato un numero irrazionale che non sono mai stato in grado di immaginare. Molte studentesse vengono addirittura da me a chiedere delucidazioni sbattendo le palpebre secondo la serie di Fibonacci: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, e così via, sbattiti di palpebre. Mi sento percosso violentemente dalle loro pupille che si ostinano a rimanere immobili nelle mie anche in quei pochi attimi in cui chiudono gli occhi, come se stessero cercando un numero reciproco, ovvero quel prodotto che moltiplicato per me dia al loro cuore come risultato 1. Non che la cosa mi sia mai dispiaciuta, dato che per anni queste somme affettive mi hanno fatto sentire come una potenza cubica di quello che sono, forse anche perché, se ripenso alla mia adolescenza, vedo solo desideri divisi in radici quadrate la cui cifra sia arrotondata per difetto. Quando andavo al liceo ricadevo in quel cliché che spesso tutti riducono a una denotazione offensiva che si estrinseca in una vergognosa incognita, una X che tra le foto di classe non produce alcuna successione, con tutti i corollari connessi all’essere una variabile indipendente, che poi, francamente, di indipendente avevo solo postulati simbolici. Addirittura i professori, guardandomi, provavano una certa compassione, nonostante i miei voti, diciamolo, più che ragguardevoli. È senza dubbio stata una grande liberazione e un moto di orgoglio ed euforia la scoperta, nei primi anni di università, che per il genere femminile la cosa più copulativa che esiste al mondo è l’intelligenza e che le donne sono molto più speculative degli uomini nelle loro scelte. Certo, il professor De Michelis, emerito luminare di topologia, che ha il suo ufficio accanto al mio e con cui ho stretto un rapporto di amicizia tanto conflittuale quanto sincero, ama trovare i minimi comuni multipli dei desideri altrui e sostiene, non con poca applicata arroganza, che le donne abbiano pensieri più terreni di quel che credo io, ma a me sembra che in definitiva non sia possibile fare una media ponderata degli altri, forse anche perché io non li capisco, aperiodici e approssimati come sono.
Credo che il malinteso pubblico sulla mia genialità nasca dai saggi che ho pubblicato: La cosecante del tensore, Cinque asintoti dei decimali, Nomografia Boleana, Proiettività della teoria dei giochi, Formalismo cubico, Metamatematica euclidea degli aggregati e ovviamente il libro che mi è valso il successo: Istogramma combinatorio cardinale rotante. La verità, però, è che ho studiato con more geometrico per scrivere i miei libri ed è qui che sorge il problema che in questi ultimi anni ha iniziato a sgretolare la struttura delle mie certezze. Ascoltate, seguite il mio ragionamento: se per scrivere un libro di matematica si deve ricorrere al lavoro altrui, stratificato in secoli di ricerche, allora il risultato degli sforzi compiuti sulle spalle di questi giganti non saranno forse bruscolini insignificanti che trovano la propria ragion d’essere nell’aver copiato le idee di quei predecessori che ti hanno permesso di formulare quello che hai formulato nelle tue pubblicazioni? Per assurdo, non è per caso inconfutabile che l’unico vero genio non è stato altro che il primo uomo ad aver pensato in modo matematico, mentre tutti gli altri non sono che epigoni sempre più stupidi col passare dei secoli? Non è così? Ditemi voi, non è inconfutabile? Quando ho tratto tale conclusione ho capito che tutto l’entusiasmo intellettuale dei miei anni giovanili mi ha portato ad essere un banalissimo, volgare, saccente divulgatore, sono solo stato abile a mascherare i miei omomorfismi concettuali. Il mio vero e innato talento è la parafrasi, la proprietà commutativa delle idee altrui dove il risultato non cambia.
E poi, devo confessarlo, non ne posso più di portarmi dietro questo segreto logorante, dunque io devo confessare assolutamente che l’unico modo che ho per ridurre ai minimi termini la mia, lasciatemelo dire, la mia volgare mediocrità, è imparare a memoria formule, perché fin dalle elementari io di matematica non ci ho mai capito un cazzo. Passo interi giorni a ripetere calcoli così che la mia impostura sembri un’incognita suriettiva in grado di confondere le idee ai miei studenti, ai miei colleghi, perfino a me stesso, che talvolta mi convinco di aver calcolato correttamente la formula di riduzione che sono, quando invece mi sento sperso in un mondo caotico da cui non riesco a trarre alcuna regola generale o pattern o principio razionale. Giorno dopo giorno ripeto postulati e svolgimenti come un bambino fa con le poesie la sera a tavola davanti a una madre stanca e disillusa: “In un triangolo rettangolo ABC, retto in A, il quadrato costruito su un cateto è equivalente al rettangolo che ha per dimensioni l’ipotenusa e la proiezione del cateto sull’ipotenusa”, e subito dopo continuo a ripetere altri versi: “Sia [a,b] ⊂ R un intervallo chiuso e limitato non vuoto e sia f:[a,b] → R una funzione continua. Allora f(x) ammette (almeno) un punto di massimo assoluto e un punto di minimo assoluto nell’intervallo [a,b]”.
E così via e così via, tutto a memoria senza che lo abbia mai davvero capito. Non ho mai capito niente di tutto quello che so. Per me la matematica è un poema scritto in una lingua ignota la cui bellezza risieda nella musica che si ottiene leggendola ad alta voce piuttosto che nella comprensione profonda delle sue cause e delle sue conseguenze. Quando mi siedo alla mia cattedra all’università, davanti a studenti e studentesse che credono ciecamente nel mio genio con una fiducia che si addice più ai santi, io sospiro e poi inizio a recitare la parte di un cantante che intoni i suoi numeri senza averli mai amati veramente.
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