Torniamo anche quest’anno al Festival dei Popoli, un evento che regolare scandisce le nostre vite già da molti anni, come un orologio a pendolo nella casa dei nonni che si guarda con un misto di devozione e d’amore, come qualcosa di vecchio e di nuovo al contempo. Torniamo anche quest’anno al Festival dei Popoli e parlo al plurale perché mi riferisco a me e alla mia compagna Diana: è qualcosa che ci unisce, che ci riavvicina se siamo lontani, come un terreno comune, una cosa che ci piace fare insieme. Chissà, ci diciamo a volte, se accadrà che ci lasceremo, chi si prenderà il Festival dei Popoli. Ma poi parliamo d’altro. Uno affonda lo sguardo nella tazzina del caffè, l’altra guarda le bollicine del bicchiere e non c’è modo di finire quel discorso.
Voglio dire questo, oltre all’importanza che questo Festival riveste nella vita cittadina e mia personale, volevo parlare della gente che vi si riunisce attorno e che ogni anno torniamo a incontrare. Ci sono delle persone che vediamo solo ai Popoli, gente che forse per il resto dell’anno rinchiudono in delle mansarde, così che non si sciupino per la pioggia.
C’è una signora americana che vive nelle Marche (me lo ha raccontato la mia compagna Diana che l’ha sentita raccontarlo a una vicina, prima dell’inizio dello spettacolo) che ogni anno torna a Firenze a vedere il Festival dei Popoli, dice che la fa viaggiare in tutto il mondo. Ci sono tante persone a cui sono segretamente affezionato, come il ragazzo degli accrediti che mi parlò una volta della sua tesi su Vasta, o ad altre, come l’uomo col gilet, o il satiro anche se non ci ho mai parlato, ma non mi metterò a nominarle tutte, non è quello che adesso voglio fare.
Volevo invece parlare di una sorta di mitologia interna, di narrazione che arriva anche da parenti o amici più grandi: i racconti di un tempo remoto e favoloso in cui il Festival si teneva al Pala-Congressi, vicino alla Fortezza (possibile, ci diciamo, quando lo raccontano: Al Pala-Congressi?) e di come la questione dei sottotitoli fosse complicata e macchinosa: a quell’epoca vi erano dei traduttori in dei gabbiotti, vi erano delle cuffie da infilare e altri meccanismi curiosi. Ci raccontano poi di altre edizioni passate che si svolsero allo Spazio Uno di Via del Sole e all’Odeon naturalmente (questo lo possiamo immaginare, c’eravamo anche noi: ricordiamo con amore i matinée all’Odeon, in cui sprofondare nel caldo e nel sonno; io personalmente ricordo un documentario sulla nebbia in cui provai quasi un esperienza extrasensoriale: non sapevo più dove finiva il mio corpo; poi dopo qualche ore arrivò la maschera a svegliarmi). Ho detto dell’epoca del Festival dei Popoli allo Spazio Uno, ebbene quando ce lo raccontano noi annuiamo, perché ci sembra una buona collocazione, ma forse, ci diciamo, dipende solo dal fatto che appartiene a un tempo passato e questo aumenta la sua desiderabilità. O forse, nei nostri sogni più sfrenati, pensiamo a un’edizione del Festival dei Popoli in cui tutti i cinema del centro di Firenze che ancora ci sono, Odeon, La Compagnia, Spazio Uno e Alfieri siano dedicati a questo Festival: sarebbe il massimo, sarebbe come il Torino Film Festival, ci diciamo e ci brillano gli occhi).
Oggi il Festival dei Popoli arriva a un traguardo importante, ma in fondo gli anni che hanno al loro interno il 9, sembrano alludere alla cifra tonda che arriverà l’anno dopo. Poveri anni con il 9 all’interno. Così questa 59° edizione sembra servire solo come una promessa alla prossima, ai fuochi d’artificio per i sessant’anni, alle celebrazioni, a tutto questo. Eppure intorno a noi il mondo sembra andare male o molto male o malissimo, e in generale in una direzione opposta a quella auspicata del Festival dei Popoli. In quel corridoio illuminato e con specchi alle nostre spalle io e la mia compagna Diana ci guardiamo e diciamo: che pensi, toglieranno i pochi fondi che ci sono? L’aboliranno? Il governo impedirà che si arrivi alla sessantesima edizione? La risposta che ci diamo è che una cosa così è impossibile, che il Festival dei Popoli ci sarà anche l’anno prossimo, e anche quello dopo e per sempre.
E se anche non ci dovesse essere, ci sarà il suo popolo, ci diciamo, da qualche parte in quelle mansarde o scantinati il satiro e l’uomo col gilet si incontreranno, il ragazzo con la tesi su Vasta ancora ci parlerà di Vasta e puntuale come ogni anno la signora americana arriverà dalle Marche. Siamo sicuri, in qualche modo, quel Festival si farà.
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