20th suspect circuit
di Hesam Eslami (Iran, 2017, 90’)
Sono arrivato al cinema verso le 17:30, dopo una camminata di un’ora, il modo migliore di uscire da un’impasse.
Pioviccicava, era caldo, ho fumato la prima sigaretta della giornata dopo un caffè americano preso in un bar più o meno davanti alla Compagnia, accanto al palazzo dove aveva vissuto Rossini, un bar dove non avevo mai messo piede in vita mia. Il cliente prima di me si è mangiato un cornetto vuoto senza bere niente, mentre la barista coi capelli turchese passava il mocio svogliata.
Davanti al cinema c’era la signora che chiede i soldi per i senza fissa dimora. L’ho salutata e non le ho dato niente, promettendo che forse lo avrei fatto dopo. Dimora è una bella parola e si usa soltanto se non ce l’abbiamo, altrimenti è solo una casa.
La sala era quasi piena del solito multiforme pubblico di un festival la cui carica non accenna a diminuire, edizione dopo edizione, a riprova del fatto che è lì, in medio oriente, che sembrano girare i cardini della Storia.
Il medio oriente è dolente. Ogni film, la musica, persino la pita tagliata e stipata nelle piccole tazzine sembra dolere o quantomeno meritare di essere lì. Se è felice, il medio oriente, è stato triste per diventarlo – ma forse questo vale per ognuno di noi.
Penso a queste cose mentre mi gratto i resti di un’orticaria probabilmente dovuta – leggo su internet – a una “sindrome sgombroide”, cioè al sushi. Ne sto uscendo grazie agli antistaminici che adesso mi fanno socchiudere le palpebre anche se il documentario è molto interessante. Parla di un gruppo di ladri a Teheran. Ladruncoli, per lo più: auto, autoradio, le offerte per i poveri.
All’inizio avevano provato a rubare anche la macchina del regista, che però ha deciso di diventargli amico e di raccontare una fetta della loro storia.
Alla fine il protagonista si fa la galera, esce, trova un lavoro e ha un figlio, Abolfazl.
The day we left Aleppo
di Hassan Kattan (Siria, 2018, 9’)
Questo brevissimo corto iniziava, secondo programma, alle 20:45. Così sono uscito e ho camminato. Pioviccicava ancora. Avevo i sensi aumentati e percepivo intorno a me una comunità anziché delle persone, cosa che il sole e il bel tempo non sempre mi consentono.
Camminando ho pensato alla donna di Tel Aviv alla quale insegno italiano e dalla quale mi ero salutato alle 16 dopo un pranzo da Rocco, in sant’Ambrogio. È venuta insieme a un’amica, per un paio di settimane. Appena arrivata ho subito pensato che fosse ricca, esosa, di estrema destra, integralista. Di quanti luoghi comuni si può vestire una persona?
Ho camminato in via de’ Pucci, quindi via Bufalini e via sant’Egidio.
Sono arrivato fino in Santa Croce e ho mangiato allo Schiacciavino una schiacciata con prosciutto cotto, zucchine e salsa di carciofi. Ho preso una birra e ho fumato delle sigarette intanto che il cielo si schiariva e il sole tramontava.
Nel documentario che stavo per vedere una coppia lascia la propria casa e la propria città devastata dai bombardamenti. Non hanno scelta, così prendono un pullman per la Turchia.
La ragazza piange, la casa è importante.
Mi alzo e ritorno verso il cinema.
Una possibile reazione all’orticaria è cospargersi di creme e unguenti, fare docce fredde, resistere e impasticcarsi per bene. Un’altra, quella da me adottata nelle prime due settimane, è smettere di resistere e crollare, farsi crescere le unghie e grattarsi a sangue. L’ho fatto soprattutto di notte, quando le difese della volontà erano basse e l’orticaria cresceva come l’incubo di un bambino, prima di venire redarguito da medico e familiari. Il fatto è che non ho mai provato un piacere più intenso.
Of fathers and sons
di Talal Derki (Germania, Siria, Libano, Qatar, 2017, 98’)
L’ultimo film della giornata era un capolavoro. Il regista, presente in sala, lo avevo già conosciuto in una precedente edizione in cui aveva presentato un altro film incredibile, Return to Homs.
In questo documentario è riuscito ad avvicinare il generale di Al-Nusra Abu Osama e i suoi figli, fingendosi un reporter devoto alla causa. Sminatore e combattente, Abu perde un piede durante il film – il sinistro per fortuna, come Allah ha voluto – recita versi del Corano, tira scappellotti ai figli e sacrifica una capra. Si dice certo che la sua guerra sia l’anticamera per una guerra globale in cui i cani infedeli saranno finalmente sconfitti.
Quando esco da film del genere penso sempre due cose:
– che i documentari sono l’unica forma di arte possibile.
– che diventerò un reporter come Kapuściński e che la smetterò di scrivere cazzate.
Mi scrive Iris, la donna a cui insegno italiano. Domani non posso venire a scuola. Mi gratto la schiena. Il piacere più intenso è anche quello che prolunga e aggrava il male.
La signora che chiede i soldi per i senza fissa dimora ha studiato i flussi delle persone dentro e fuori dal cinema e ripete la sua richiesta sempre uguale, senza speranza e senza disperazione. La ripete anche a me e io le do due euro come promesso, anche se lei non si ricorda e domani, sono sicuro, me lo richiederà.
Penso ad Abu, che dorme con un tizzone ardente in fondo alla gamba e sente male al suo arto fantasma. Penso alla sua missione e penso alla mia.
Intanto Rossini esce di casa e s’incammina per via Cavour, verso il Duomo. È grasso e non compone musica da anni. Ma ama camminare, sa che è il modo migliore di uscire da un’impasse.
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