In Icaria, colà per la prima volta danzarono attorno a un capro.
Eratostene, Erigone
Erigone, che allevò il cane fin da cucciolo, si impiccò a un albero non appena il cane la portò dinnanzi al cadavere di suo padre Icario che quei grassi e scabrosi pastori dell’Attica avevano ucciso a bastonate. Si erano spaventati per l’ebbrezza che la bevanda di Icario gli aveva schiantato nelle chiorbe, tanto che nella notte si erano smarriti in un delirio di vino.
Pensavano che Icario li avesse avvelenati, ma non era veleno, era il sacro dono di Dioniso, ed Erigone che dondolava appesa a un albero fu uno strazio tale che da quel momento cento – ma che cento, mille – fanciulle cominciarono a intrecciare cordami, fecero delle altalene che appesero ai rami delle querce, degli olmi, degli alberi sacri, e iniziarono a dondolarsi per mutare se stesse in donne e far scorrere il vino negli otri, ricordando Erigone e il padre Icario.
Era l’Aiora, così la chiamavano: il passaggio alla vita adulta, che è un incontro tra le viscere dei fanciulli e il vino mesciuto da poco.
Ogni volta che un uomo prende in mano un bicchiere e vi lascia scorrere dentro il vino, osserva un mondo che inizia a vorticare in flutti rossi, le altalene dondolano e le fanciulle e i fanciulli diventano donne e uomini, insieme diventano terra e vite.
Bevine uno e diventa calmo, bevine due e diventa allegro, bevine tre e diventa vento, bevine quattro, e bevine cinque, e sei, e dunque dormi, fa’ buon viaggio mio caro, salutami Bacco, Liber pater, o’ grande Dioniso, che «stiam diventando uomini, e invece torniamo fanciulli, o no?». Così mi disse un uomo con l’otre svuotato e fiacco appeso al collo, sciancato, disteso in un borro, con la camicia stracciata e le carni all’aria.
Se vedete un ebbro che dondola, che danza dinoccolato, un uomo che non si regge in piedi, non abbiate paura, non bastonatelo, ma soprattutto non abbiate pietà di lui, poiché sicuramente sta meglio di voi, di noi, di tutti: si sta avvicinando alla morte.
E così non resta che invidiarlo.
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