Nel quartiere dove abito io c’è un uomo che assomiglia al coprotagonista di questo film. È un signore che si sposta goffamente da un piede all’altro. C’è una strana rigidità da gambe aperte e ginocchia artritiche.
Non piega mai verso l’interno i piedi. Avanza nel mondo con le mani in tasca. Per lo più non ha niente da dire. Guarda davanti a sé borbottando e difficilmente ti saluta, ma tutti lo conoscono. È addirittura il padre di un mio caro amico. Ha lunghi capelli bianchi spettinati e a seconda della stagione la barba, anch’essa bianca, lunga d’inverno, corta di primavera.
Si sofferma continuamente a guardare o fotografare cose piccole e impensabili: un fiore che sbuca da una finestra, nuovi cartelli stradali, un pezzo di intonaco di una casa che sta per venire via, alcune lattine schiacciate gettate ai margini del marciapiede. Sempre le solite strade. Sempre le solite cose. Da qualche parte possiede un archivio di immagini scattate su pellicola da far venire i brividi. Un giorno se ne uscirà con una colossale opera d’arte che ritrae per intero tutto quanto il suo mondo. Sarà un grande giorno.
Quando volevano costruire il parcheggio sotterraneo in questo vecchio quartiere dove abito, lui ha deciso di alzare la voce. Era un po’ sconclusionato: argomentazioni piene di falle e salti pindarici incomprensibili, tanto che qualcuno sorrideva, altri gli consigliavano di bersi un’altra grappa, ma alla fine l’ha avuta vinta lui, anche se non è un alcolizzato, non è un pazzo, ma solamente uno che ottiene le cose che vuole per lo più senza ferire nessuno.
Ecco, Nebraska ha il potere di parlare di una persona che vedo continuamente quando mi affaccio dalla finestra. E me lo rende tridimensionale.

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