Una pista accidentata serpeggia verso l’entroterra dalle rive orientali della mia città. Le nuvole di polvere fanno sgorgare lucide lacrime dagli occhi del viaggiatore stanco, giunto alla sua fermata come un autobus la sera al capolinea in un mondo senza strade. È tempo di rifocillarsi di me.
Tra noi umani l’odio per i piccioni è manifesto, vengono addirittura descritti come ratti volanti pieni di malattie, portatori di peste, vilipesi per la loro memoria da cerebroleso e per quel loro incedere goffo, affamato, disperato, homeless del regno animale per eccellenza, il piccione è metafora degli storpi che non vogliamo accettare, osservare dentro di noi, loro sono la manifestazione del nostro handicap interiore che nascondiamo nella grande recita che qualcuno chiama società e che scartiamo dalla nostra attenzione con tutta la superficialità di un flaner postmoderno; ma dall’altra parte dello spettro delle bestie che popolano le strade c’è il passero, che tutti guardano come innocuo, piccolo, leggero, scaltro, simpatico e docile.
Quale più stupida cecità ha mai colpito l’uomo!
Io ci vedo bene, non sono come tutti gli altri umani ciechi, io vedo, vedo il passero per quello che è, un abile impostore che a suon di sorrisi finirà per ucciderci tutti: il passero domestico ha conquistato il mondo migliaia di anni fa, battaglia dopo battaglia, guerra dopo guerra, sterminio dopo sterminio, come posso fidarmi della sua levità, leggero come una piuma brunastra che cinguetta dei morbidi Cip Cip che non comprenderò mai. Sento nelle loro voci dichiarazioni inconsulte, grida come tuoni, promesse di vendetta, pianificazioni di pulizia etnica, sogni al napalm, desideri atomici con progetti di estinzioni di massa dove solo loro balleranno con quelle zampette minuscole e quelle dolci ali piene di delicate piume sulla montagna di cadaveri che avranno prodotto. Li ho osservati beccare un pezzo di cracker, galletta sottile, friabile, atta a sostituire il pane, in tutte le piazze in cui mi sono soffermato pensoso, solitario, con le mani in tasca, un cliché umano che viene studiato anche dai passeri coi loro occhi per lo più neri e sferici, pieni di rabbia. Come farete a salvarvi dal luogo comune che siete? Mi sembra domandino i minuti volatili che infestano le città come un esercito d’occupazione in una guerra intarsiata nel presente simile a un diamante di incredibile bellezza sul dito di una novella sposa.
Il passero non è mai domestico, bestia feroce per eccellenza si diletta a distruggere i nidi degli altri uccelli per allontanarli sempre più dalle fonti di cibo. Spezza col becco il guscio sottile e miracoloso delle uova altrui, compromettendo in modo drammatico la riproduttività dei loro nemici, che invece sono tutti buoni, gentili, carini tra di loro come un’espressione priva di originalità, banale e falsa, vittime di un unico mostro che non si sazia mai se non col dolore di chiunque non sia un passero. Solo il passero ghigna nella notte osservandoti dalla finestra chiusa e imprime scritte oscene sul vetro per ricordarti che non ti ha mai perso di vista, guida spietata verso l’Ade che rimane in attesa della tua anima finché non sarai più in grado di trattenerla all’interno del tuo corpo e la vedrai librarsi disorientata sopra di te mentre quei piccoli caronti pennuti e volanti non la afferreranno per usarla come spaventapasseri nel regno dei morti. Là, in quel Tartaro eternamente doloroso, anche il passero sogna palazzi eretti grazie all’astuzia delle sue ali, piramidi che rimangano per sempre, capaci di estinguere il fuoco fatuo della memoria, così labile, caduca, intimorita dai lapsus e dai vuoti. All’Inferno edificheranno archi di trionfo costruiti con le nostre anime umane usate come mattoni imprigionati nell’intonaco bianco, puro e lindo della loro anima passeriforme. I suoi occhi, guardate i suoi occhi che luccicano nonostante l’oscurità totale di gennaio, nel freddo che uccide chiunque, ma non i passeri, che hanno occhi che luccicano, ecco, quel luccichio è la manifestazione più fulgida e felice del demonio. I passeri, quando uccidono le uova altrui, non succhiano il tuorlo o il sangue del feto che hanno appena tolto dalla storia del mondo, perché è di loro gradimento ridere, ridere come dei passeri pazzi su quelle uova spezzate. Il passero non è neppure solitario: date le sue striminzite dimensioni, si muove in gruppo, in alleanze tra gruppi, in nazioni basate su etnie, un totalitarismo verticale e metafisico da cui nessuno ne esce vivo, neppure i passeri stessi, che a volte, mentre mangiano il mio occhio di cadavere ucciso dai passeri, li sento domandarsi tra loro se la felicità non sia forse quella di essere una pietra composta da minerali e licheni che vengono leccati dalle radiazioni solari. Forse, si domanda un passero leggero, sorridente, con ali piumate, dolcissimo nella sua minuta forma corporea, mentre affonda il becco appuntito nella mia iride, forse si domanda: ma quest’occhio umano che sto mangiando, questo cliché antropologico che è il mio cibo, forse lui sì che avrebbe potuto dirmi cosa sia la felicità.
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