In vita mia ho sempre viaggiato in nave, e sono giunto alla conclusione che sia un luogo privilegiato per riflettere sul suicidio. Specialmente se viaggi con un posto in passaggio ponte. D’inverno.
D’estate c’è troppa spensieratezza in mano a turisti scalpitanti. Aspettano il traghetto giù al molo, bianchi in viso, incolonnati in auto, camper e moto con gli ammortizzatori compressi. Indossano infradito o scarpe da tennis. Una volta a bordo occupano ristoranti, bar, sale d’attesa, scale, corridoi. Gonfiano materassini, srotolano teli mare, inforcano i cappucci delle felpe e legano zaini e valigie e cani tra loro. Poi cominciano a mangiare, a fare avanti e indietro tra il bar e il bagno. Stanno sui ponti a fumare, a fotografare, a osservare la partenza, a salutare, a telefonare, a bere birre. No. Troppo chiasso.
D’inverno è il periodo migliore. C’è freddo e in nave non c’è nessuno, eccetto lavoratori e marinai. Devi avere un buon sacco a pelo e coprirti bene. Sul ponte esterno l’aria gelida falcia il viso e invita a star dentro.
D’inverno il tempo in nave scorre lento, segue ritmi meno frenetici, esistenziali. Gli spazi si dilatano e vengono mal riempiti dai pochi passeggeri persi nell’inedia da viaggiatori d’altri tempi.
L’attività principale è ammazzare il tempo. Non puoi far scappare i pensieri fuori da un oblò, perché il mare di notte non è un dolce panorama in cui perdersi: non si vede. Una tela nera.
Non puoi tirarla lunga leggendo, a una certa ora le luci si abbassano nel rispetto di chi allo sbarco riprenderà la routine lavorativa e ora riposa riverso su un divanetto. Anche la TV rispetta questa tacita regola: è accesa ma silenziosa. Gli attori non se ne preoccupano, e forse il cinema muto potrebbe avere un risorgimento nei traghetti.
La connessione in alto mare non esiste, perciò non resta che passeggiare per i vuoti corridoi rivestiti di moquette. Sembra di stare dentro un Overlook Hotel galleggiante, che ti spinge fuori, ti chiama sui suoi ponti esterni, dove inevitabilmente vai.
Lì, trenta metri sotto il parapetto, il mare ribolle. Una vertigine. Non si può fare a meno di fissare quel rimestare furioso che lascia una scia di schiuma bianca presto inghiottita dal buio. Lo sguardo si fa catatonico e ogni sfumatura di pensiero si dissolve davanti a una visione via via sempre più insistente e nitida: un corpo lanciato nel vuoto alla deriva nel mare d’inverno. Che fine farà?
Alla meglio spolpato da turbine grandi come case. Alla peggio divorato da alieni, abitanti di una natura altra dalla nostra. Sconosciuta e inospitale. Un mondo che solchiamo a bordo di un gigante metallico lungo centosettantacinque metri, in grado di ospitare duemiladuecento passeggeri e settecentocinquanta auto. Dotato di trecentoventi cabine con servizi, quattro caffetterie, ristorante alla carta, ristorante self-service, pizza point, snack bar, area giochi per bambini, piscina, lido bar, gelateria, solarium, sala poltrone, Sport bar, cabine e alloggi per animali domestici, eliporto, antenna satellitare e aria condizionata.
Un guscio fatto a nostra immagine e somiglianza, che ci protegge dalle paure primordiali quando le vediamo affiorare a pelo d’acqua, seguirci sotto le onde, nascondersi tra la schiuma e riprodursi in un rito orgiastico perpetrato nell’oblio che si espande oltre i fari che ci illuminano e definiscono in un oceano nero.
È in quel momento che lo senti parlare, il dubbio. Sussurra leggero. Insinua il sospetto. Pone il quesito: si tratta del desiderio che non manca mai di niente o del bisogno che reclama una carenza? Difficile rispondere, anche con le garanzie. Anche se ci fosse l’aldilà, anche se fosse scientificamente provato che dopo la morte ci attende qualcosa: una nuova vita, un nuovo inizio, una seconda possibilità, qualsiasi cosa, tuffarsi nell’ignoto, in bocca ai propri incubi, in ossequio alle nostre angosce, rimane sempre un atto da compiere carichi di ridicolo coraggio o di folle incoscienza.
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