Tutti a dirmi che dovevo vedere Inside Out (Francesca, Simone, Giovanni, Luca, Martina, Stefano, Piero, Pietro, Marco, etc…) e alla fine me lo sono visto con Lucia, scoprendo una storia splendidamente scritta.
Riley è una ragazzina di undici anni alle prese con cinque omini nel cervello che simboleggiano le emozioni di tutti noi (Rabbia, Disgusto, Paura, Gioia e Tristezza). Queste emozioni governano, attraverso una specie di joystick sempre più complesso, le reazioni interiori della bambina, accumulando ricordi sotto forma di sfere colorate, una buona rappresentazione grafica, sebbene estremamente semplificata, del funzionamento del nostro sistema centrale nervoso. La sottintesa analisi dell’interiorità umana che il regista Pete Docter tenta è che non siamo tanto un computer logico-matematico capace di analizzare dati in entrata e in uscita, bensì un calderone caotico di stati d’animo il più delle volte in conflitto tra loro, (anche se non si capisce dove siano finiti stati d’animo fondamentali quali Invidia, Eros, Accidia, Iconocalstia, Misticismo, Pisserità, Iperrazionalismo, etc…).
Per Riley, ragazzina di undici anni, le emozioni sono assolute, hanno un solo colore, che è quello dell’emozione che ha preso il controllo di lei nel momento in cui le accade qualcosa. Gioia è lo stato d’animo più sicuro di sé, oltre che più superficiale, quindi desidera mettere in un angolo, isolata nel suo cerchio ristretto d’azione, la Tristezza, brutta, grassa, lamentosa, cieca e guastafeste: è sufficiente che Tristezza tocchi qualche ricordo per tingerlo indelebilmente del suo colore depressivo. Ci sono tutte delle sfere mnemoniche piene di felicità che se ci ripensiamo un attimo diventano disforiche e malinconiche e ci portano quasi a piangere.
Ma quello che Riley deve ancora comprendere, nel suo graduale processo di crescita, è che tali emozioni non sono assolute (come accade in chi è affetto da bipolarismo). Il film non è altro che un romanzo di formazione delle nostre emozioni prepuberi, della loro difficile ma necessaria coesistenza, e in particolare di Gioia, che dovrà farsi un po’ più triste per scoprire come i ricordi non sono mai univoci nel loro significato, ma sono sempre sfumati dalle altre emozioni.
Note a margine: ho pianto per quasi tutto il film, trattenendomi dallo scoppiare in singhiozzi solo per non fare brutta figura con Lucia, che era seduta accanto a me (e che sapeva perfettamente che stavo piangendo!). Per cui mi domando esattamente il motivo per cui copiose lacrime tracimavano dai miei bulbi oculari senza che io potessi opporre alcuna matura resistenza: 1) Mi sono identificato con Tristezza, che è l’antagonista di Inside out. Non è tanto che si deve essere un po’ tristi per essere più felici, bensì che Tristezza è quel sentimento che dà profondità al nostro modo di intendere il mondo, ed è l’unica emozione empatica tra tutte quelle che la Pixar ci propone. Quando Gioia (la protagonista), precipitata nel dimenticatoio, ritrova uno dei ricordi base (Riley che viene lanciata in aria delle sue compagne di hokey) e finalmente decide di osservare quel che stava accadendo un attimo prima di quel luminoso momento di egoticità, scopre che in realtà i genitori e le sue compagne di squadra la stavano banalmente consolando da un momento di infinita Tristezza. Insomma comprende le motivazioni che hanno spinto gli altri a comportarsi in un determinato modo nei nostri confronti, cioè in parole povere diventa empatica; quindi 2) il senso generale di questo film è che la Tristezza permea ogni aspetto della nostra esistenza civile, urbana, altruistica. E se c’è una nota a margine negativa è proprio che l’antagonista (cioè la Tristezza) dovrà essere addomesticata attraverso una graduale trasformazione in co-protagonista, trasformazione che coincide con la maturazione, ma anche con la cancellazione di Bing Bong, il nostro amico immaginario. E questo lo trovo tristissimo, veramente tristissimo.
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