L’11 marzo è iniziata la quattordicesima edizione del Korea Film Fest, manifestazione cinematografica a cui noi della Bocciofila siamo molto affezionati (e lo rimarremo per sempre), in quanto il cinema coreano ha portato sullo scenario internazionale artisti di incredibile spessore di cui ci siamo innamorati perdutamente.
Partendo dal presupposto che il punto di vista di questo pezzo è generale e quindi manchevole, vorremmo sostenere che la cosa forse più magnifica del cinema coreano ci è sempre parsa una tensione latente all’interno delle proprie trame che determinava improvvise e inaspettate esplosioni di violenza sia fisica che psicologica. Queste reazioni nevrotiche e omicide e compulsive e sadomasochistiche dei protagonisti scaturivano da un elemento rimosso dalla coscienza nazionale coreana (per quanto sempre ben presente), ovvero un dramma sociale, storico e individuale che l’intera Repubblica di Corea ha vissuto tra il 1950 e il 1953 e che ha determinato una frattura nell’unità popolare all’altezza del 38° parallelo. Il rimosso del cinema coreano, il non detto, quella frattura che donava alle pellicole una tensione produttiva e poetica era a nostro giudizio proprio il 38° parallelo. E non stiamo dicendo che ogni film sud coreano parlasse di quella terribile guerra, bensì che nella loro produzione cinematografica vi era nascosto un dolore che non veniva espresso e che determinava angoscia e sofferenza e paura e sfiducia e speranza nei vari personaggi. Questo mostruoso confine geopolitico era di volta in volta declinato in una storia d’amore o nella maternità o nei giochi tra bambini o nei sorrisi di una anziana signora o nel poliziesco o nelle follie avantpop di puro intrattenimento o nell’horror e via dicendo, via dicendo.
Quel che a noi pare già da qualche tempo, ma che questa 14esima edizione del Korea Film Fest rimarca nonostante la sua splendida organizzazione, è che il dolore di un intero popolo si è dimostrato estremamente produttivo per la scena artistica cinematografica, ma che i registi abbiano purtroppo cominciato a specularci sopra, rendendo il 38° parallelo uno schema a priori per la costruzione dei personaggi e delle trame, anche a discapito della plausibilità. E se la maggior consapevolezza delle cause segrete delle proprie motivazione rende le pellicole coreane in un certo qual modo più dostoevskiane (nel loro tentativo di dar voce agli umiliati e offesi e al loro dolorosissimo narcisismo), al contempo però perdono quella forza e quella intensità che tanto ci piaceva quando ancora gli artisti coreani non erano sufficientemente maturi da saper esprimere in modo così schematico le cause delle proprie idiosincrasie.
Ovviamente questo è un discorso generale, ovvero manchevole in quanto non tiene in considerazione i casi particolari.
Forse il cinema coreano è arrivato ad un terribile bivio: quello di abbandonare la rappresentazione a tutti i costi del 38° parallelo. Ma come fare a cancellare questa linea Mason & Dixon dalla propria coscienza? Forse basterebbe rimetterla nel proprio inconscio e fuori da ogni schema.
Qua sotto solo alcune rappresentazioni del 38° parallelo in forma di trailer che abbiamo amato tantissimo e che i più esperti sosterranno essere fin troppo ovvie, per cui da considerarsi a titolo esemplificativo
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