Foto 1
I’m someone who’s supposed to be me.
(Don DeLillo, “Zero K”)
Una mattina, leggendo il giornale sul telefono, ho trovato una foto di me, comparsa fra le comparse, perso nella folla, dietro al famoso attore Richard Madden – il Robb Stark di Game of thrones.
Si trattava di una foto di scena dalla serie I medici, in queste settimane in onda su rai 1, che – si dica rapidamente – è piuttosto inguardabile. Il mio ruolo nella serie, da contratto, era di fare lo stand-in (cioè quello che fa la prova luci al posto degli attori) dello stesso Richard-Robb-Cosimo de’ Medici.
L’effetto della foto su di me è stato straniante, lo stesso effetto di sentire la propria voce registrata. Forse qualcosa di più: la totale mancanza di posa, il fuoco dell’obbiettivo sul famoso attore e così l’attenzione di qualunque persona dalla media cultura televisiva (me compreso), la calca di persone, gli abiti rinascimentali…
Al di là del fatto che le mie occhiaie tradivano la serata precedente e la levataccia che ne è seguita, quello che ho fatto vedendo la foto è stato prima di tutto una supposizione. Non ho pensato “quello sono io”, ma “quello devo essere io”. Contro l’evidenza che fossi in effetti io, si stagliava l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso, qualcosa di meno. Ho pensato che probabilmente era la celebrità del famoso attore a risucchiare la mia anonimità, come se fosse qualcosa di ulteriore di cui liberarsi – l’anonimato. Oppure che semplicemente ero venuto male (male rispetto a me o rispetto al famoso attore?).
Quando ho provato a taggarmici, questo gesto aveva in sé una carica innaturale, uno sforzo teorico eccessivo. Su facebook ho tutte foto straselezionate – anche quelle dove sono gli altri a taggarmi hanno subìto una selezione a monte, al momento di farle e di concederle – foto che mostrano un particolare lato di me che ho deciso di mostrare. È ormai difficile trovarsi in una foto rubata, senza parlare dei selfie. Un attore del resto è sempre pronto, è nato per farsi fotografare. Nessuna foto di un attore può mai essere del tutto rubata, questo è il suo essere. Uno stand-in invece è per definizione impossibilitato ad impressionare la pellicola. Solo la luce lo scolpisce, effimera, per pochi attimi. Uno stand-in è un’assenza vestita da pagliaccio.
Foto 2
Io non tremo, è solo un po’ di me che se ne va.
(Manuel Agnelli, “Bye bye Bombay”)
Il secondo giorno di riprese mi sono ritrovato a fare la comparsa. In un gelido mattino di novembre, a Pistoia, si tremava; il mio ruolo era quello di “servo degli Albizi” e la mia scena era portare un baule dal palazzo alla carrozza, dunque caricarlo e tornare indietro. In totale abbiamo fatto una quindicina di ciak, girando fino all’ultimo scampolo di luce naturale.
Nonostante il fastidio provato per la pronuncia più volte piana della parola “albizi”, una sdrucciola, con tanto di presuntuosa spiegazione da parte dell’attore Roberto Accornero all’attrice Valentina Cervi – di cui mi ero preso una discreta cotta – e nonostante mi sentissi un coglione, a fumarmi i cicchini di nascosto vestito in calzamaglia, palandrana e scarpette di stoffa, in attesa del grido ACTION! e con un cappello che la mia enorme testa continuava a scalzare, appena rasato e privato delle basette da due parrucchieri esaltati dal mio profilo “etrusco” – al che mi sono anche un po’ risentito – nonostante tutto, dicevo, è stato divertente ed è valso il gioco nella scuola d’italiano dove insegno di “trova-l’insegnante-Giovanni-nella-fantastica-serie-sui-Medici”.
La nostra lingua è fatta per lo più di piane, ma le sdrucciole – come dice il mio amico Benia – sono molto più musicali.
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