Con il mio collega Pugge si diceva che il riso Chow Fun è senz’altro il miglior piatto che si possa mangiare in Via Mariti. All’ultimo posto il lampredotto di Vladimiro. Al penultimo la pizza di Cocci Pizza, ex Equo con le schiacciate di Mario, fornaio gaio.
Se ne discuteva mentre aspettavamo che Jasmine, o comunque si chiamasse la titolare della rosticceria cinese “Jasmine”, finisse di preparare il nostro riso Chow Fun. Lei, o piuttosto che finisse di prepararlo suo marito, che stava in cucina e si occupava anche delle consegne a domicilio (vaga compensazione quel suo andare a fare le consegne e vedere tutte le strade del mondo, rispetto alla moglie sempre al negozio, che gli era costato rinunciare al nome proprio sull’insegna al neon del ristorante).
Io e Pugge, che siamo colleghi di lavoro e gli unici comunisti rimasti nella ditta insieme a Gianni Mereu, provavamo a dare a Jasmine solo risposte che fossero delle citazioni del Grande Timoniere.
«Da bere?» chiedeva lei.
«Grande è la confusione sotto il cielo».
Perché non sapevamo cosa prendere.
«Del resto la rivoluzione non è un pranzo di gala».
«Che c’entra?»
Jasmine ci guardava perplessa.
«Coca Diet?»
«No, macchè Coca Diet. Coca male, Coca capitalista».
Lei scuoteva la testa, come a dire: ma smettetela.
Alla fine io prendevo una Coca normale, mi ero fatto convincere. Pugge una mezza naturale. Io chiedevo a Jasmine anche le bacchette di legno, mentre Pugge si accontentava della forchetta di plastica. Mi accusava di essere un radical chic, ma così, bonariamente, come chi ormai spera solo che le cose vadano peggio e peggio ancora, per poi un giorno poter infine andare meglio. «Così torneremo a combattere» diceva Pugge.
Poi lasciavamo in pace Jasmine e ci mettevamo a mangiare il nostro riso Chow Fun.
Era squisito.
Gli spiegavo di Sanremo, a Pugge, del voto popolare, che la gente voleva vincesse Ultimo (che vincesse l’ultimo, ripeteva Pugge, come se in questo ci fosse un significato nascosto) e di come invece i giudici di qualità avessero premiato il meticciato.
«Perché le élite culturali sono ancora di sinistra, lo capisci Pugge?». O meglio, questa era stata la lettura che i politici di destra avevano voluto dare a tutta quella faccenda, omettendo che un tempo, quando c’era solo il televoto, c’era chi si comprava degli interi call-center per influenzare il risultato.
«Che ne sa il pubblico che cosa vuole? Cioè, perché la gente voleva che vincesse Ultimo? Perché non quell’altro? Come se quello che vuole la gente fosse un sentimento spontaneo, naturale, ma non è così! Insomma Pugge, qual è il benedetto rapporto della sinistra con le masse? Vanno educate? Ascoltate? Comprese? Aiutate a casa loro? Ti rendi conto che il rapporto tra masse e sinistra si è completamente dissolto? Quando è stato? Che giorno? Chi è stato? D’alema?»
Lui allora provava a rispondere cambiando argomento. Mi parlava delle case del popolo, si dilungava in descrizioni architettoniche dettagliate, forse troppo, e delle persone che c’erano là dentro, delle ragazze che anni prima avrebbe voluto baciare. Mi parlava delle case del popolo del Girone, di Pontassieve, il bar di Borselli, Rufina, come se quello fosse il punto chiave per dirimere tutta la faccenda del rapporto della sinistra con la gente.
Parlavamo di politica e di Sanremo, alla rosticceria cinese Jasmine, e ci dicevamo piano che lei e suo marito del resto dalla Cina se ne erano anche scappati. Sebbene, ci ricordavamo di aggiungere, il modello originario era stato del tutto travisato.
Uscendo per strada il Pugge mi diceva: «La senti?»
«Cosa?»
«La primavera che arriva».
E così andavamo al bar gestito da italiani a prendere un caffè.
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