Esattamente un anno fa, un mio amico molto più preparato e talentuoso di me a scacchi ha organizzato un piccolo torneo amatoriale, dove lui faceva l’arbitro. Avendo perso non solo per merito degli altri bravissimi giocatori, ma anche per la mia incredibile capacità di buttare nel cesso vantaggi importanti, sono caduto in uno stato disforico per un po’ meno di una settimana.
Qualche giorno dopo questo mio amico con un punteggio ufficiale mi ha consigliato di smettere di giocare senza rating sull’app Lichess: solo se vivi la durissima esperienza del vederti scappare via i punti sotto il naso puoi migliorare. Ho ceduto e mi sono fatto un profilo col soprannome rucco, come mi chiamavano i miei compagni di classe alle elementari (se qualcuno volesse cercarmi e giocare con me io ne sarei contentissimo).
Il mio amico talentuoso mi ha inoltre rifilato due libri sulle aperture, a suo giudizio punto debole di tutti i principianti. Visto che lui gioca il gambetto di donna, uno dei libri era sulla slava, una difesa col nero a questa apertura molto offensiva.
Così mi fai da sparring partner.
Devo dire che tutte le volte che gli ho fatto da sacco per l’allenamento mi sono divertito tantissimo, forse i migliori momenti con gli scacchi. Allora mi sono detto: studierò questi volumi preziosi, migliorerò, diventerò imbattibile.
La vita però, a volte, non va secondo i nostri programmi e i due libri sono ancora sulla scrivania a gonfiare il mio senso di colpa. Inoltre non gioco mai la slava perché mi fa sentire in una posizione di precarietà che devo ancora capire fino in fondo. Comunque sia, non ho smesso con gli scacchi, anzi sono un vero e proprio fanatico, faccio almeno una trentina di partite al giorno, più tutti gli esercizi quotidiani che Lichess propone (questi esercizi me li infliggo per punizione quando perdo dolorosamente).
L’unico problema, però, è che io odio gli scacchi. Per essere più precisi: io li odio profondamente. Anzi non c’è niente che io odi di più degli scacchi e adesso vi spiegherò il perché.
Come prima cosa l’avere un punteggio ti mette una tensione addosso al limite della sostenibilità: tu hai un numero da difendere e uno da conquistare, una specie di traguardo che ti poni, ma di base questi punti sono indifendibili e inconquistabili perché non tutto dipende da te. Dall’altra parte della scacchiera c’è una persona che sta combattendo con tutte le sue forze per sconfiggerti e qualche volta (direi spesso) ci riesce. La vittoria non dipende solo dalla tua volontà.
Inoltre dato che il mio rating è piuttosto stabile, il numero di vittorie equivale a quello delle sconfitte, eppure io ho la percezione costante di essere sempre in caduta libera, di dovermi continuamente aggrappare a ogni vittoria per non precipitare giù in quel baratro vergognoso che sta sotto di me. Come se non bastasse, ci sono giorni in cui non vinco neanche una partita. Filotti interi di sconfitte che mi fanno sentire uno stupido, un ritardato, un imbecille. Mi guardo allo specchio e vedo il ritratto del fallimento, di qualcuno che vorrebbe aspirare non dico a essere promosso a Regina, ma a Pedone. Un Pedone promosso a Pedone: una sgrammaticatura impossibile. Questa sensazione, però, non va via quando, per un motivo o per l’altro, imparo una nuova strategia che mi permette di migliorare e quindi di guadagnare in modo più stabile posizioni. Anche quando, come tendenza, sto salendo, le sconfitte fanno sentire di più la loro forza di gravità.
In secondo luogo quando inizi una partita controlli il punteggio del tuo avversario e se è più alto del tuo diventa una sfida interessante, ma innocua, perché non hai niente da perdere con uno più forte di te, ma se l’altro, puta caso, ha un punteggio nettamente più basso del tuo, allora perdere diventa dolorosissimo .
Ho dovuto spaccare molti piatti per capire che non devi mai sottovalutare il tuo avversario e che il suo punteggio è sempre fuorviante. E quando dico sempre intendo proprio sempre. Mi è capitato di perdere una partita con una persona che aveva più di duecento punti meno di me. Duecento! Sono un’enormità! Mi sono vergognato tantissimo, ma non di fronte a un ipotetico spettatore o a una giuria, bensì di fronte a me stesso. In questo, chiaramente, non c’è nessun vero e proprio giudizio sull’avversario, anzi solo il rispetto dovuto a una persona che è stata più brava di me.
E qui si arriva al terzo punto del perché questo gioco sia insopportabile: gli scacchi sono il più potente, grandioso specchio della propria mente e del proprio carattere, a prescindere dal livello raggiunto. Sapere quali sono i propri limiti e l’atteggiamento caratteriale che si ha nell’impostare e nel portare a termine il gioco equivale in tutto e per tutto a conoscere se stessi. Eraclito era un giocatore di scacchi. Non solo: studiando i nostri errori, scopriamo i limiti del nostro pensiero. Gli scacchi sono psicologi più acuti di Freud, ma anche uno strumento psichiatrico più accurato di una Tac.
Tutto questo è bellissimo, perché è una esperienza che ti permette di migliorarti gradualmente come persona, tuttavia gli scacchi sono un maestro di vita durissimo, severissimo, sempre senza compromessi, perché questo guru in bianco e nero non fa altro che ripetere la sua massima: il risultato di ogni partita che giochi dipende solo da te, l’avversario non è altro che la proiezione delle tue paure, insicurezze, incapacità, l’insieme dei tuoi limiti. Se perdi non puoi che accusare te stesso.
Ogni giorno devo fare una trentina di partite per imprimere bene nel mio cuore come mai odio così tanto gli scacchi.
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