Di Lavinia Ferrone
Aspetto i miei amici all’ingresso del cinema e nel frattempo mi giro una sigaretta tenendo tra indice e medio il pacchetto di tabacco Chesterfield blu dal lembo superiore. Stringo la borsa sotto al braccio destro mentre con la testa piegata sulla spalla ascolto un vocale di C. Il vocale dura più di tre minuti e mezzo, faccio in tempo a girarla e accendermela. Mi frugo nelle tasche con la sinistra finché finalmente non sfioro con le punte delle dita quello che dal tatto sembra essere proprio l’accendino. Quando lo tiro fuori e vedo che è il pacchetto di Polo mi sento come un groppo alla bocca dello stomaco. È ansia. I ragazzi arrivano, gli chiedo da accendere tenendo ancora il telefono spiaccicato sotto l’orecchio anche se il vocale è finito. Accendo, mi sistemo la borsa sulla spalla, sfilo il cellulare da sotto la testa e poi: “Oiiiiii”. Finita la sigaretta entriamo verso la sala dove danno In the mood for love. Devo andare a vederlo perché questa settimana è il mio turno per scrivere un pezzo per la Bocciofila e ancora non ho in mente niente. Non posso paccarli anche sta settimana, negli ultimi due mesi sono uscita solo con un pezzo. Era tratto da Nomadland. Parlava di quando vai su Amazon pensando che sia la volta buona per cancellarti ma poi non ce la puoi fare perché, per colpa dell’algoritmo, ti suggerisce tutta roba che avresti sempre voluto e così alla fine ordini la qualunque. Poi vai a letto insoddisfatto di te stesso, della tua vita, non riesci ad addormentarti finché il domani non arriva, ti alzi, è l’ennesima giornata di merda. Un ping-pong infinito tra quello che devi fare, quello che vorresti fare, l’assoluta apatia, la voglia di non fare nulla, smettere, andarsene, sì ma andare dove. Finché non ci ritroviamo all’angolo del bar a bere Moretti, fumare cicchini, chiedersi come va.
Guardo il film con molta attenzione, cercando quei particolari, quegli accenni di cui si sente il riverbero anche qui, in mezzo a questo nostro quotidiano. Il tradimento di cui i protagonisti sono vittime. E se fosse solamente la loro immaginazione, se fossero loro i traditori. Penso alla loro storia metaclandestina: volersi vedere non potendo senza che a nessuno interessi veramente. Non poter più fare a meno della presenza dell’altro eppure sai che sta finendo nello stesso momento in cui qualcosa è cominciato. Vedersi una volta che potrebbe essere l’ultima e invece. Pronto? Sì? ok, non puoi parlare adesso, va bene, ciao.
Ripenso alla mia relazione confusa con lui che è fidanzato, che ci salutiamo guardando da un’altra parte per non dare nell’occhio. Che abbiamo sempre da accendere l’uno per l’altra, ma dobbiamo farlo così, con non-chalance, offrire quindi da accendere a tutti per non dare nell’occhio. Non posso scrivere di questo. Non posso farlo. Capirebbe, capirebbero.
Usciti dal cinema, ci accendiamo una sigaretta commentando il film. La questione dei tagli improvvisi nel montaggio lascia pensare a pezzi di un puzzle da ricomporre, come il passato. Cosa rivela lui quando sussurra nel tempio in Cambogia. Che non era vero niente? Che erano loro i traditori? Ce ne andiamo a mangiare dei gyoza al vapore per tappare la fame e perché ormai ci è venuta voglia. Penso che forse potrei scrivere di questo, di quanto in generale venga voglia di mangiare cinese tutte le volte che si guarda un film orientale. Potrebbe essere carino, con una battuta sul katsudon. Ma poi S. me la boccerebbe in revisione.
Torno a casa la sera, nascosta tra i lampioni delle strade. Mi immagino da fuori come la tipa del video di Calcutta, quella di Orgasmo, quando torna a fine serata e va a casa a struccarsi. Guardo il cellulare, non mi ha scritto.
Mentre mi tolgo i vestiti sono lì che rimugino su cosa scrivere il pezzo. Fino all’illuminazione: ma quanto sono belli i vestiti di lei?
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