Se dieci anni fa avessi avuto la Gemma del Tempo, oggi chissà da quale angolo di mondo starei scrivendo. Degli oltre 14 milioni di futuri possibili che mi aspettavano, avrei visto quello in cui davo credito a chi mi proponeva di investire poche centinaia di euro in Bitcoin, e da lì forse sarebbe stata una storia diversa. Ma col senno di poi siamo buoni tutti a scansare la sottile linea che ci separa dall’essere l’eroe o la comparsa che muore nel più stupido dei modi. Provate a farlo prima, se ci riuscite. Non è solo questione di fortuna o astuzia, bisogna anche smettere di scrivere di Noi con la penna, e tornare a usare la matita.
So che esistono numerosi e legittimi motivi per cui il passato è necessario e inviolabile, ma spogliando il nocciolo di ogni nobile argomento, ciò che resta è sempre la necessità di riempire un vuoto d’identità. Parafrasando Eraclito: non vediamo mai due volte la stessa persona, perché ogni anno il numero di cellule che cambiamo è pari alla massa del nostro corpo. Siamo copie di noi stessi in continuo mutamento, ma immaginarci così sarebbe terrificante, oltre che caotico: se commetto una rapina, tra un anno potrei essere assolto se dimostrassi di non essere più io quello che l’ha compiuta? E in una relazione monogama, ci sarebbero gli estremi per il tradimento? È più semplice definirci unici e originali, astraendoci dalle imprevedibili e ingovernabili mutazioni date dallo scorrere del tempo. Ma quando applichiamo questo principio a ciò che creiamo, il passato sembra svilirsi nel culto, e perché no: nell’industria, di quello che vogliamo come unico e originale. Se mi racconti di una città costruita sull’acqua, pago per vedere una città costruita sull’acqua, anche se i suoi edifici sono ormai privi del loro scopo, e tenuti in piedi da continui interventi di restauro che di originale e unico hanno lasciato giusto la forma.
Se avessi i poteri di America Chavez viaggerei tra i milioni di possibili universi per provare a cercarne uno iconoclasta, dove passato e futuro si contrappongono non solo nella teoria scientifica, ma anche nella pratica quotidiana. Ma quei poteri non li ho, quindi resto qui, dove passato e futuro convergono tendendosi la mano come il Dio e l’Adamo di Michelangelo, mostrandosi così l’uno a immagine e somiglianza dell’altro. Almeno, questo è ciò che sembra a vedere la mostra Lest’s get digital!, ospitata a Palazzo Strozzi in concomitanza con quella su Donatello. Perché in fondo cos’è il concetto insito nella criptoarte, se non la riproposizione del culto dell’unicità e dell’originalità già applicato a Donatello? Sì, c’è la legittima necessità di valorizzare il diritto d’autore; l’altrettanto legittima necessità di costruire un discorso estetico etc. Ma spogliando il nocciolo di ogni nobile argomento, ciò che resta è la necessità di riempire un vuoto d’identità che l’attitudine del metaverso all’infinito copia e incolla alimenta, trasformando in un Idra tutto ciò che noi vogliamo irripetibile, eterno, immutabile e inviolabile. E a poco servono, in questo senso, gli immaginari fantascientifici delle opere esposte. Perché su loro agisce lo sguardo di Medusa, che li tramuta in simulacri. Più vicini ai bronzi dell’altare maggiore della Basilica di Sant’Antonio a Padova che a qualsiasi altra idea di un domani diverso da ieri.
Riemergendo nel chiostro di Palazzo Strozzi dunque, mi sono accorto di essere fuori sincrono, come se più universi stessero collassando l’uno sull’altro. E osservando l’installazione di Refik Anadol, mi sono sentito come davanti allo specchio del mio inconscio, o della mia coscienza, disciolto in un magmatico cocktail di accelerazionismo e spiritualità, cronofagia e decrescita felice, intelligenza artificiale e retromania. Sì, se dieci anni fa avessi avuto la Gemma del Tempo, degli oltre 14 milioni di futuri possibili che mi aspettavano, forse non avrei scelto quello in cui finisco a fare la comparsa che muore nel più stupido dei modi.
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