Emily Blunt è davanti ad uno specchio del set, una casa in piena campagna in cui forse vorrebbe trasferirsi un giorno o l’altro, staccare dalla grande metropoli in cui vive, tornare ai valori di un tempo, quando da bambina raccoglieva le mele insieme a sua nonna.
Ecco – pensa – ecco su cosa devo concentrarmi: mia nonna: quando ebbe l’attacco di cuore nella vasca da bagno: la sua faccia disperata e impaurita: il silenzio sul suo volto.
Sospira e le viene da piangere. Sa che non deve trattenere le lacrime. Deve rievocare il dolore che provò mentre era lì in bagno con lei e non sapeva cosa stesse succedendo e si era sentita bloccata e poi aveva fatto la cosa giusta: era scesa giù e aveva chiamato l’ambulanza. Aveva sette anni e il concetto di morte era una cosa vaga, il più delle volte applicata ad animali del bosco (uccellini, topi di campagna, tassi, gatti), di cui si dispiaceva, ma rimanendo sempre al di qua della razionalità e del controllo.
Per la scena che era in procinto di girare avrebbe dovuto varcare quella soglia e regredire ad un livello di piccolo animaletto nella propria tana sotto assedio. Doveva tornare ad uno stato eroico di disperazione. Per di più senza proferire una sola parola. Questo film è un film muto. Questo horror è un horror sull’estatica bellezza del silenzio.
Mentre si concentra sulle proprie emozioni entra John Krasinski, regista e coprotagonista. John la guarda con quella bella faccia barbuta e capelluta, due occhi iper significativi, tramite il riflesso speculare dello specchio. Emily ricambia. Ha un volto che sembra apocalittico. Non si dicono nulla per diversi secondi, secondi che sembrano ore, poi Krasinski rompe il silenzio e le dice:
– Sei un’eroina, lo sai?
Ad Emily scappa un sorriso:
– Così mi rovini la concentrazione
– No, no, scusa
Continuano a guardarsi attraverso lo specchio per altri lunghissimi secondi in silenzio. Poi con una voce bassissima, quasi un mormorio:
– Vuoi ripassare la scena?
– Ok, John
– Allora, mi raccomando non devi dire niente. Ti sei appena bucata un piede con un chiodo e non hai emesso un solo lamento, ti si sono rotte le acque e hai le doglie, il mostro ti sta cacciando, è dentro casa, è affamato, se anche solo bisbigli muori te e il tuo bambino nascente, sali su in bagno e ti metti dentro la vasca e respiri piangendo mentre il mostro sale su. L’inquadratura sarà un primo piano abbastanza buio sul tuo volto. Devi resistere finché non diventa impossibile resistere, poi gridi con tutta la voce che hai in corpo reclinando la testa indietro. L’unica cosa che voglio è che quando comincerai a gridare tu lo faccia con la consapevolezza che verrai fatta a pezzi esattamente l’attimo dopo che hai aperto bocca. Il silenzio è la metafora della nostra incapacità di affrontare il lutto. La sordità è la nostra limitatezza umana nell’ascoltarci vicendevolmente. Il tuo grido, quindi, è il grido di una donna che si getta nell’abisso, che è vita e salvezza e morte certa. Questo è ciò che deve farti disperare: l’inevitabilità irrevocabile dell’abisso come salvezza, la rottura del silenzio come nuovo futuro speranzoso e al contempo un terribile addio alla vita.
I due si guardano grazie allo specchio, in silenzio, mentre Emily ha un’espressione apocalittica e John sembra volerla salvare in qualsiasi modo.
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