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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Valley Uprising | Fare i conti con le vertigini

12 Marzo 2019 di Salvatore Cherchi

è questione di equilibrio, non è mica facile

Baustelle – Charlie fa surf

 

Per superare le proprie paure ognuno ha il suo metodo, inquadrabili in due grandi approcci: andare dritti come un treno e sbatterci il muso sopra; girarci attorno fino a quando la forza del vortice creato non sarà così forte da risucchiarci dentro. Io ho sempre scelto il secondo metodo.

Di recente ho iniziato a guardare documentari sugli scalatori. Li guardo con morboso interesse, tra fascino per l’altezza e terrore per la vertigine che segue.

Vedere persone aggrappate a una parete verticale, sospese a quattro, cinque, sei, sette, otto-cento metri di altezza, sorrette solo da corde, chiodi d’acciaio e moschettoni, mi manda in panico, nel vero senso della parola.

Quando poi la regia allarga il campo, passando dal dettaglio delle dita che afferrano uno spuntone o della scarpetta che sfrega cercando attrito, per alzarsi in volo fino a far scomparire il corpo dello scalatore in un mare di roccia, e tu, spettatore, ti rendi realmente conto di dove quel tizio o quella tizia si trova, di cosa ha, anzi, di cosa non ha, sotto i piedi, allora spengo. Perché l’idea che anche un solo minuscolo sassolino voli giù da quello spuntone dove le dita sfregano, mi provoca il capogiro, e rischio di cadere dal divano o dal letto.

Poi riaccendo, perché in quei filmati cerco un atto rivelatore, qualcosa che disveli un segreto profondo quanto quelle vertiginose pareti che uomini e donne sfidano, all’apparenza, con disinvoltura. Si nota quanto dietro quei movimenti calcolati e precisi, simili a passi di danza, ci sia parecchio allenamento e disciplina, un costante esercizio fisico e spirituale, ma ancora prima, la sfida con sé stessi e con chi, nel proprio ambiente, è diventato un punto di riferimento da raggiungere, e da battere.

Non è un caso che questa disciplina sia nata in America. Sì, l’alpinismo già esisteva, ma la sua forma estrema e individuale è nella terra del self made man che è nata.

Voltare le spalle alla monotona sicurezza della vita borghese promossa dalla società dell’epoca. Sfidare l’autorità e il buon senso. Realizzare un sogno di libertà. Competere con i colleghi per dimostrare di essere il migliore. Spostare il livello della sfida sempre più in alto. In questo senso, la storia di Warren Harding, Jim Bridwell, John Bachar, Alex Honnold e tanti altri, è una storia tipicamente americana. I climbers stavano alla montagna come la beat generation stava alla letteratura. La valle del parco di Yosemite è stata una Woodstock dell’alpinismo estremo, e oggi ne resta ancora la Mecca.

Non sia detto a caso: l’evoluzione dell’arrampicata ha coinciso con questi due periodi culturali. I climbers erano ragazzi pieni di energie e inventiva che cercavano di dare un senso alla propria vita, e al contempo erano degli scappati di casa, a volte incoscienti e arroganti con la vita, solo che invece che scrivere poesie e romanzi, scalavano montagne con zaini carichi di attrezzatura improvvisata e vino, e una volta in quota, erano capaci di calarsi acidi e accendersi grossi torcioni. La storia si fa anche così. Ma se ripenso al terrore che ho provato quando ho fumato prima di prendere l’aereo, convinto di alleggerirmi il pensiero, ecco, forse la loro filosofia di vita non è indicata per le mie paure.

Continuo a osservarli e mi chiedo quando il limite possa dirsi raggiunto senza essere superato ancora; fino a quando qualcuno potrà dire: «posso fare meglio di te», pensiero che da sempre muove le discipline, sportive e intellettuali, umane. Ma può esserci un limite invalicabile, quando l’unico ostacolo tra te e il prossimo traguardo, è la morte?

Mi riferisco al “free solo”*, l’arrampicata senza corde. Se scivoli, cadi. Se cadi, muori. Non c’è nessun sistema di sicurezza a garantirti una seconda chance. Ti arrampichi per tre, quattro, cinque, anche dieci ore di fila, e se le energie ti lasciano; se ti fai male a un dito, a un polso, a una caviglia; se fai uno strappo muscolare; se scopri che in vetta le temperature sono gelide o il meteo cambia d’imporvviso o sei andato troppo lento e la notte è vicina, non puoi dire basta. Non torni indietro. L’unica via d’uscita è raggiungere la vetta, il traguardo che ti sei imposto. O lasciarti cadere nel vuoto.

È una forma di scalata pura, intima, a impatto zero, che si rifà a una filosofia sportiva spartana, mistica: nessun supporto per la sfida tra l’uomo e la montagna: solo muscoli e concentrazione. Si trascende persino il pensiero di Michel Serres, il filosofo francese che, osservando i maestri alpini con cui andava in escursione, ci racconta di come il corpo dell’uomo riesca a sfuggire alle leggi della natura, all’evoluzione, grazie alla capacità di trasferire a oggetti esterni funzioni primarie. Ecco perché se un ippopotamo vuole vivere in mare deve diventare una balena, o se un’automobile vuole attraversare un lago deve diventare una barca, mentre l’uomo, per far tutto ciò, non muta, rimane uguale a sé stesso. Se vuol scalare una montagna si dota di corde chiodi e moschettoni, ed è libero di usare il proprio corpo per arrampicarsi, senza preoccuparsi del fatto che la natura non l’abbia dotato degli strumenti adatti per farlo.

Eppure personaggi come John Bachar e Alex Honnold, e più in generale tutti i ragazzi e le ragazze che hanno reso leggendario il Camp Four e questa disciplina, sembrano voler dimostrare il contrario, ovvero che alla fine si torna sempre al corpo, alle sue capacità e ai suoi istinti primari, dove tutte nasce, anche le paure.

I traguardi che raggiungono non hanno solo valenza sportiva, ma umana, soprattutto per uno come me, che preferisce le scale all’ascensore con la scusa di tenersi in esercizio; che in una casa oltre il quinto piano evita di uscire in balcone o affacciarsi alla finestra; che sceglie sempre la via più lunga e lenta, purché ti tenga i piedi ancorati a terra.

Insomma, io questi ragazzi li ammiro, ma una corda e un moschettone in più a loro, e un po’ più d’amore per l’altezza a me, non mi sarebbe dispiaciuto.

 


* Free Solo è anche il titolo del documentario che ha vinto l’Oscar quest’anno, e racconta la scalata in free solo di Alex Honnold, lungo una parete verticale alta 900 metri. Nove-cento-metri. Il video linkato racconta di un’altra scalata, ma bastano i primi 30 secondi per rendervi conto di cosa stiamo parlando

 

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Postato in: Anatomia di un fotogramma, La vertigine della lista, Recensioni Tag: Alex Honnold, combattere le vertigini, free solo, Jim Bridwell, John Bachar, Nick Rosen, Peter Mortimer, scalata, valley uprising, Warren Harding Fai un commento

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