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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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The Wife | Venezia pallida

7 Gennaio 2021 di Redazione

di Rebecca Moore

 

Lo volevo lasciare già da un po’, per via di quei suoi modi persecutori. Non credeva mai a niente di quello che gli dicevo, faceva il suo gioco.

L’avevo incontrato in palestra, mi aveva offerto il suo aiuto, educato, piacente, premuroso. Nei lineamenti si intravedeva una strana durezza, che riconosco solo ora con la chiaroveggenza del domani. Era bello, “un principe azzurro” lo avrebbe definito mia madre, portava camicie bianche inamidate e stirate da lui.

Un weekend andammo a Venezia. La città era oppressa dal bel tempo. Dico oppressa perché la felicità di quel cielo matita, incontaminato, metteva ancora più in risalto le mie ombre, come in un gioco di chiaroscuri. Stavamo in un ostello a Campo dei Gesuiti, a due passi dall’acqua. Un ostello di quelli moderni, lussuosi, futuristici. La mattina facemmo una colazione continentale nella corte; tutto era perfetto, impeccabile, la qualità del cibo, il servizio, il gusto nell’arredamento e per l’arte appesa ai muri. Anche le lenzuola da cui ci eravamo appena alzati non si erano sgualcite, erano rimaste setose e senza increspature.

Il sole era ancora alto, fosforescente. Camminammo e camminammo. Il mio cuore sommerso dall’angoscia; le strade pulite. Camminammo, e io che ho un perfetto senso dell’orientamento, mi persi. Non riuscivo più a distinguere il sopra dal sotto, il dietro dal davanti, come un labirinto. Il Minotauro faceva strada. Doveva trasferirsi per lavoro in quella città e faceva finta di essersi acclimatato, di fare da cicerone. Intimava che lo seguissi, che andassi a vivere con lui, ne parlavamo ogni giorno, era l’unico argomento di conversazione.

Finimmo nel quartiere ebraico. Non era ancora l’imbrunire ma sembrava già scoccata l’ora. Porte chiuse, piazze prede del vento, alberi muti. C’è da dire che era inverno. Bighellonavo senza meta, aspettando, non dando voce al declino. Lui mi ripescava la mano, come un secchio dal fondo di un pozzo.

Camminammo e bevemmo. Non ho mai bevuto spritz più buoni, oltre a quello classico lo facevano anche con vino bianco, acqua di Selz e una spruzzata di prosecco. Nel fondo, morivano sempre una o due grassissime olive. Non ho mai mangiato olive più verdi e succulente, erano dei frutti esotici.

Non ricordo più che piega prese il tempo, gli spritz erano troppi e troppo buoni, ma non ero mai ubriaca fino in fondo. Vagavo sempre nella dispersione e nella leggerezza della bolla rosa, nel mondo delle cose translucide, come sott’acqua. Stavo sprofondando, con un bicchiere in mano e una maschera carnevalesca, nel nero mare, lenta e amorfa. Come la città.

Non credevo che sarei sopravvissuta al secondo giorno. Mi svegliai all’alba, non per qualche rumore, ma per il silenzio. Un silenzio d’acquario, che vagava nei corridoi dell’ostello, si era infilato sotto agli usci delle camere, tutte vuote tranne che per la nostra. Se prendo le mie cose mi inseguirà. Così uscii a piedi scalzi; solo una città in cui mi ero perduta poteva anche salvarmi.

 

 

 

Rebecca Moore (1990) è italo-americana e vive a Firenze. Ha una laurea in Lettere Moderne e alla passione letteraria e filosofica aggiunge quella per il disegno. Ha scritto un romanzo, Il Mare e la Terra.

 

 

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Postato in: Lo sfogone, Oceani di autoreferenzialità Tag: 2017, Björn Runge, glenn close, Jonathan Pryce, spritz, the wife, Venezia 1 commento

Commenti

  1. felicetta iervolino says

    7 Gennaio 2021 at 14:43

    “Se prendo le mie cose mi inseguirà. Così uscii a piedi scalzi; solo una città in cui mi ero perduta poteva anche salvarmi”. Una scrittura bella, elegante e profonda. E un finale perfetto.

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