«Ecco che per l’Italia si prepara la concorrente più giovane della squadra, pensate, ha solo sei anni». La palazzina in cui abitavamo aveva un cortile asfaltato che circondava l’edificio. Io ero l’unica bambina del condominio e giocavo sempre da sola. Non soffrivo di solitudine, ero troppo timida e impacciata per sentire la mancanza dei coetanei. Mi piaceva andare in bicicletta in quel cortile asfaltato. Trascorrevo interi pomeriggi a pedalare, ma non andavo veloce, non ero spericolata, mi avevano inculcato che sudare era il male, sudando mi sarei ammalata e ammalandomi sarebbe successo qualcosa di tremendo, apocalittico, una catastrofe, così pedalavo con giudizio e prudenza, senza esagerare. Avevo creato una sorta di percorso mentale del cortile – girare intorno a un tombino, passare a destra di una certa pietra, sfiorare la panchina, tagliare l’angolo del marciapiede – e mi imponevo di rispettare al centimetro il tracciato. Spingere sul rettilineo, rallentare nelle curve, tenere stretto il manubrio nei dislivelli; calcolavo ogni mossa, ogni oscillazione, ogni movimento per completare il percorso senza sbavature e incertezze. Avevo sei anni e la mia ossessione era il giro perfetto.