Il cinema è nato con l’immagine di un treno che arriva in stazione. Oggi, più di cento anni dopo, i treni ripresi scorrono dietro una linea gialla che la voce fuori campo avverte: “Non oltrepassare”
(Dall’ultimo intervento in sala, proiezione del 22 giugno 2015 presso il cinema Odeon di Firenze)
Dopo che, durante il dibattito, si è detto diffusamente quanto sia deprecabile oggigiorno la fruizione effimera delle notizie, del tipo che vediamo un servizio al telegiornale sull’ultima strage dell’Isis – persone bruciate vive, omosessuali anziani gettati da un palazzo e poi lapidati, civili fatti annegare dentro una gabbia, per non citare le varie decapitazioni – e poi un momento dopo eccovi colpevoli a chiedere il sale a vostra sorella, maledetti insensibili che non siete altro, ciò detto, dicevo, ci siamo tutti recati in fila indiana e composta a prendere il vino bianco che i promotori dell’evento avevano assicurato essere gratis. Io, Peppe e Stefi ci siamo guardati come in un sogno mentre le nostre labbra ripetevano inebetite: vino gratis.
Era un documentario sui barboni, l’evento, e l’aveva girato un amico di mia sorella alla stazione Termini di Roma. S’intitolava: “Roma Termini”.
Io, Peppe e Stefi abbiamo trangugiato colpevolmente la scarsa ma onesta razione di fermentato d’uva. Abbiamo fumato. Poi ci siamo ricordati che – sempre gli organizzatori – avevano fatto sapere che con il costosissimo biglietto d’ingresso al film – 9 scandalosi euro – il pubblico aveva diritto ad un 30% di sconto sulle bevute del bistrot. Allora, sempre molto colpevoli, ci siamo fatti spillare della birra chiara in tre grandi bicchieri e ci siamo fumati altre sigarette finché non è rimasto più niente da dire.
Ma ti dico che è un film solo apparentemente politico ma è anti-politico, senza politica, e semmai politica in senso puramente filmico o finto o funzionale
(Da un messaggio Whatsup di Simo, non poi così livoroso)
Quando vivevo a Roma e facevo finta di studiare per coltivare in realtà questa stupida romantica epica passione di scrivere, Bart, il regista del film sui barboni, viveva anch’egli nella capitale. Lavorava al Kino, ricordo, e così ogni tanto – molto poco in realtà – lo beccavo (ad esempio per la rassegna su Winding Refn, la sera che davano Bleeder, oppure la sera d’una presentazione con Cristiano Godano), visto che anche io lavoravo al Pigneto (consegnavo prodotti bio-vegan con una graziella bianca).
Il fatto che frequentasse il Centro Sperimentale già rappresentava per me una fonte d’invidia mista a rispetto – sì, perché io ho sempre amato il cinema e prima o poi lo farò invece di vederlo soltanto, ma per il momento frequentavo un corso di scrittura alla Garbatella che non era esattamente da salire sui banchi e declamare piangendo.
Il secondo anno, lavorativamente parlando, mi lasciai alle spalle il quartiere di Pasolini per quello di Petrolini.
Incontrai Bart alla stazione. Perlustrava. Mi disse che l’avevano buttato fuori dal CS e che Luchetti – Daniele Luchetti, il regista, l’allora direttore del CS – si era reso sordo ai suoi reclami appassionati. Mi disse che era stato buttato fuori per via d’una regola sul lavorare con altri registi non del CS durante le lezioni del CS. Questo significava niente prova finale, cioè niente soldi, niente film. Pensai che tutto questo fosse una grave mancanza di buon senso da parte di Luchetti, vista la situazione generale e le esigue opportunità che uno aveva di trovare lavoro, tanto più in un ambito come quello del cinema. Un momento dopo stava per uscirmi dalla bocca quella sequela di banalità sull’Italia e gli italiani, che fanno schifo e sono brutti e puzzano, ma Bart mi batté sul tempo: torno a Parigi. Aveva una piccola telecamera in mano. Prima però, mi fece, giro sta cosa qua.
Fregna de vacca
(Espressione di sgomento e/o rabbia frequentemente usata dal mio coinquilino in via Botero 66, a Roma, e forse da lui stesso coniata (cfr. Eccheccazzo))
È vero che intervistando i barboni chiunque troverebbe una miniera d’oro di storie assurde e interessanti. E pure commoventi, è chiaro. Quando un barbone ti racconta la sua storia e tu lo guardi conosci già il finale. Perciò alcuni hanno detto che è troppo facile così, che si è voluto fare una cosa furba e strappalacrime.
Io non sono d’accordo. Io credo che l’equivoco sia proprio in quel “chiunque”.
Ma le donne? Dove sono le donne barbone?
(Da un intervento in sala dopo la proiezione di cui sopra)
Sotto casa di mia sorella, a Novoli, viveva una barbona. Era tedesca (se uso il tempo imperfetto è perché adesso non c’è più e non si sa dove sia finita). Mia sorella trovava tutti i modi per evitarla perché lei era una bevitrice piuttosto forte di Tavernello e birrini fin dalle prime ore del mattino. Però era difficile evitarla perché la barbona stava proprio sotto casa. Così mia sorella finiva per parlarci, in un modo o nell’altro, in una lingua o nell’altra, lei con in testa tutta una serie di menate da sbrigare durante il giorno – la banca, le poste, il commercialista, la caldaia, il gatto, l’idraulico liquido – e quel po’ di stress che si accumula a lavoro – perché mai dovrei darti dei soldi? Perché mai dovrei darti i miei c– mentre l’altra dimenticava anche di chiederglieli, i soldi, da quanto era sbronza, e ormai delirava e basta. Guardava la miriade di bottiglie che aveva raccolto e di cui era circondata: Peroni e Moretti da 66cl, Nastro Azzurro, bordolesi colorate, vodka, spumanti vari, Johnny Walker, una bottiglia di liquore cinese alla prugna, e ripeteva pfandflasche, indicando le bottiglie, che forse ormai le bastava dare i nomi alle cose. Pfandflasche. Mia sorella allora faceva non lo so con le spalle e sgattaiolava via.
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