di Roberto Donati
Passeggiavamo senza meta ieri sera, io e un mio caro amico. Eravamo stati da Adriano il cocomeraio, ma ci era rimasta un’ubbia nel cuore: perché mangiare il cocomero a giugno che, si sa, fa schifo? E faceva schifo? Sì. Un film non ci andava di vederlo: che film vuoi vedere nel giorno del solstizio e non ci sarà mai abbastanza buio in casa? Sicché siamo usciti ma, siccome in centro non ci andava di andarci, da casa mia abbiamo preso la direzione opposta. Verso la primissima periferia aretina, una terra di passaggi a livello, McDonald’s, scuole professionali, strade dritte infinite che la mi portano un bacione a Firenze, palazzoni-serpentoni tipo Corviale, massaggerie cinesi che promettono lo Shangri-La e mantengono lo scolo. Però, piuttosto presto, stanchi e malmostosi, abbiamo deviato in una delle prime traverse: Via Catenaia. Là, dove un tempo c’era un campo da calcio oggi diresti enorme e bellissimo, adesso ci sono parcheggi, puzza di fogna del vicino fiumiciattolo, un palazzo verdeacido sbrecciato, un parco nero e turpe come il suo finto cartello di “Attenti al cane” messo lì come deterrente per gli estranei. Ci abbiamo girato attorno ed è stato come perimetrare il nostro cuore nero, poi siamo andati oltre, ma intanto – nel rievocare inavvertitamente delle tante partite giocate su quel terreno – era già scattato, fatale e implacabile, il meccanismo della memoria. Ti racconto io che mi racconti tu. Flusso di passi, flusso di coscienze. Il tempo ha cominciato a rallentare, a dilatarsi. Le nostre memorie, seppur così diverse, le mie in fondo cittadine, le sue rurali, coincidevano. Un’infanziadolescenza passata a giocare all’aperto, facendosi male e facendo male, casine sull’albero, sassaiolate, furti e intromissioni nelle proprietà private, tentativi di incendi, sbiciclettate infinite. Un ragazzo più grande di noi aveva sperimentato pure l’abigeato. Da casa mia, addirittura, si vedeva la ferrovia: il lontano Ovest, anche se finiva pochi chilometri più avanti alla stazione principale. ‘Rezzo, stazione de ‘Rezzo. Ogni tanto attraversavamo i campi di girasole fra casa mia e i binari per andare ad ascoltare, appoggiando l’orecchio in mezzo alle traversine come facevano i comanche prima dell’avvento della ferrovia, l’avvicinarsi del treno. Si vociferava che più di un ragazzo, per fare questo gioco puro e innocente, ci avesse lasciato le penne. Forse erano ragazzi comanche. Una volta, addirittura una famiglia intera venne travolta, cane e passeggino compresi: i loro corpi li ritrovarono a sud-sudovest, verso Cortona, in un bar fuori mano a bere spuma. Uscire la mattina e tornare la sera: sugli alberi attorno a casa le mamme che attaccavano le foto dei figli con la scritta “Chi l’ha visto? Reward se non me lo riportate”. Gira che ti rigira, sopraffatti dai ricordi, il cuore si stava facendo tutto rigato: solchi di vomere su cui lasciar crescere, spontanei e floridi, crisantemi di malinconia e dolce grano. I miei ricordi dell’infanziadolescenza sono tutti gialli come il grano, e giallo è il mio colore preferito. Per non soccombere a uno schianto dell’aorta, ci siamo seduti in un parco – “il parchino” – deserto e spoglio, buio. A parte una rete da pallavolo in più, due ringhiere colorate e qualche segno della modernità, tutto è rimasto come prima. Di fronte, oltre la strada, il moloch di vetro e cementarmato della scuola media. Non abbiamo ceduto alle sirene cinematografiche del silenzio costruito a tavolino in momenti apicali come questi e abbiamo continuato a parlare, stravolgendo il passato in presente. Abbiamo vissuto reciprocamente le nostre infanzie, io sono stato lui e lui è stato me, e la chiamano empatia; ma a me piace più mitologia. Eravamo morti dentro, ma insieme mai tanto attaccati alla vita – come i soldatini ungarettiani. Che fortuna, che immensa fortuna aver vissuto in un’epoca recente eppure antica, lontana, isolata come la fortezza Bastiani, in cui si avevano meno paure e ci si fidava di più. Il sangue, il pericolo, il rischio era il nostro mestiere – ed erano tutti anticipi di morte, e che dalla morte ci esorcizzavano. Infatti eravamo immortali. Come le estati sospese, dilatate, al rallentatore e infinite. Le uniche stagioni possibili. Patire nove mesi, il freddo e la scuola, per goderne tre. Tre mesi che però sembravano – ed erano – trecento. Quando ci arrivavi, avevi fatto tuo il senso paziente, da formichina, dell’attesa, del sacrificio, della promessa di un desiderio, che è già – se non più – desiderio stesso. Ed erano estati maschie, di scoregge e sudore, pre-sessuali. Un tempo favolistico che si può raccontare solo con l’imperfetto, il mio tempo grammaticale preferito. Quello che accoglie e smalta l’idea di narrazione. Tipo “Ei fu”, per dire.
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