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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Novecento | Pover purcel! Nel senso del maiale…

4 Ottobre 2018 di Redazione

di Marco Renzi
Prima della scoperta di Bela Tarr, di Lav Diaz e di altri cineasti che si divertono a consumare chilometri di pellicola, C’era una volta in America era per me il film lungo per eccellenza: duecentoventinove minuti, due videocassette, due sere per finirlo; De Niro invecchiava e anche tu crescevi di un centimetro. Poi, c’era Novecento; Bertolucci l’aveva pensata ancor più grossa: cinque ore e passa di durata, due o tre VHS, a seconda dei casi, con l’obbligo della divisione in due atti, coadiuvata dal film stesso. Anche qui De Niro imbiancava, Donald Sutherland stempiava e Depardieu restava uguale, escluse le rughe e un paio di occhiali da presbite; tutti parlavano emiliano, ma Ferruccio Amendola pareva non essere uscito del tutto da Travis Bickle, o forse ancora ci si doveva buttare. Del resto l’anno era lo stesso, il 1976; e oggi, a distanza di quarantadue anni, circa 368.184 ore, decine di migliaia di visioni di Novecento dopo, sono andato a rivederlo al cinema: due parti, due domeniche, due biglietti.

Malgrado l’ottimo restauro digitale, non sono riuscito a capire se Attila/Donald Sutherland ammazzi o no il gatto, ma mi sono ricordato perché gli fanno (quasi) sempre fare lo stronzo. Ho goduto con la fotografia di Storaro; sono stato, nella settimana trascorsa tra un tempo e l’altro, a domandarmi chi fosse il gobbo, per poi scoprire che era il protagonista dell’Amico di famiglia di Sorrentino. Burt Lancaster rinnova il contratto per la parte del vecchio che tirerà il calzino; Sterling Hayden si rivela, al solito, una faccia talmente bella da farti scordare che sta recitando, tanto che poi non sai di preciso chi sia, questo Sterling Hayden, anche se lo hai visto in una quindicina di capolavori.

Non serviva poi un film di trecentodieci minuti per ricordare al mondo che merde fossero i fascisti, ma è bene ribadire il concetto: ‘sta rottura de cojoni dei fascisti, ha detto un poeta negli ultimi giorni, e ce ne vorrebbero un po’ di più, di poeti, e anche di opere come Novecento, di certo non un film perfetto in ogni suo secondo, ma pur sempre una roba preziosa la quale, a fronte di ore e ore di insulse serie tv e di film di poco conto, val la pena d’esser rivista, anche solo per la Sandrelli, la donna più bella del mondo o giù di lì. O per ricordarsi, semmai non si avesse voglia di rispolverare Truffaut, che una volta Depardieu è stato magro, o meglio non un ciccione come adesso; soprattutto era un compagno, per poi ridursi ad andare a chiedere asilo a Putin per non pagare la patrimoniale. Che fine, Gerard, che fine. E dire che la mia ragazza dice che da giovane eri proprio bello, e parevi nato per fare il contadino, per mischiarti ai contadini veri della provincia di Reggio Emilia, di Parma, di Modena, di Mantova, di tutti gli altri posti in cui è stato girato il film. Fortuna che Bernardo, la cui intervista precede la prima parte del film, commuove sempre, così come Pelizza da Volpedo, mentre Novecento ci fa tornare alla mente un sacco di cose, specie quelle che non dovrebbero più accadere; anche se molti, in sala, piangono per il gatto e per il maiale, i quali, è vero, non fanno manco loro una bella fine.

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Postato in: Recensioni, Recensioni vere Tag: 'sta rottura de cojoni che sono i fascisti, Bertolucci, Depardieu, film lunghi, Marco Renzi, Pellizza da Volpedo Fai un commento

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