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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Human Flow | Pànta rèi kài kinèitai kài oudèn mènei

5 Ottobre 2017 di Redazione

di Lavinia Ferrone

Esiste una corrente che non ha un capo e non ha una coda. Sembra muoversi sotterranea, ma è più che altro inosservata. È una corrente che avanza inarrestabile. Non segue il mutare delle stagioni. Non si guarda indietro. Là dove è scorsa lascia i segni delle macerie che trascina con sé, stanca. È come il caso, che è in grado di raccontare verità che il determinismo cela dietro al vizio della programmazione.

È una corrente fatta di uomini che camminano lungo una fila e per uno spazio che la distanza di un unico passo fa immaginare infinita. Eppure, quando sommi quell’unico passo di ognuno degli uomini che la compongono, allora. Allora quella meta che sembra e si spera essere lì dove si è poggiato il piede e ha lasciato l’impronta, e poi quell’altra. E poi quella di un altro. Quella meta non esiste come non esiste un orizzonte, ma soltanto quel limite che tende a.

Se ci si potesse limitare ad osservare la terra dall’alto, sarebbe un inquieto sorvolare sopra spazi di nessuno, così vasti da poterli percepire, di nuovo, come inesistenti. È stringendo il campo dell’inquadratura che ci si trova qui, sulle strade che percorriamo tutti. Ed è da questa prospettiva che ci è chiaro quanto ogni spazio in cui ci si trova e che ci pare infinito, per noi, che siamo così piccoli, sia questo alla fine uno spazio costretto, che si ripete, ed è di tutti quelli che vi si trovano, ma ancora, e ancora, di nessuno.

L’ho pensato.

L’ho pensato anche mentre mi trovavo incastrata in quei pochi metri quadrati di asfalto che andavano a ricongiungersi con Ponte alla Vittoria. Mentre anche io ero in quell’unica fila innaturale che si sa di dover creare, come un tacito accordo. E aspettare. Possono passare i giorni, e si sa che l’unico modo è aspettare. Per quanto il nostro animo sussulti perché è ora, adesso, di ingranare la prima, di lasciare la frizione nel gioco dell’accelerazione. E vorresti dirlo a tutti che tu non hai tempo, perché è la vita che sta passando. Nonostante questo, si sospira, e si aspetta, perché pare che sia giusto così.

Ho visto l’immagine più bella della mia vita quando ho guardato il mare dall’alto, e pur sapendo che stavo vedendo il tutto, mi è sembrato di non vedere niente. Come quando si preferisce pensare di non esistere. Perché se ci si accorge di essere, si ha il vizio, poi, di definire i confini.

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Postato in: Anatomia di un fotogramma Tag: Ai Weiwei, lavinia ferrone Fai un commento

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