Un telefono squilla. È un suono impertinente che non si esaurisce in tre o quattro squilli ma insiste per almeno un paio di minuti. È un suono pressante e convulso. Ma da dove viene? Io ho solo un cellulare e non squilla così, e poi ce l’ho in tasca, in casa non dovrebbero esserci altri telefoni, anzi sono sicura che non ci siano altri telefoni dato che abito da sola. Allora entro nelle stanze, apro i cassetti, mi stendo a terra per guardare sotto i mobili, controllo dietro i cuscini del divano. Niente. Un telefono squilla eppure non c’è alcun telefono. Mi fermo e ascolto. Lo sento. Lo sento soffocato e allo stesso tempo netto, distinto, come sepolto sotto una catasta di libri. Lo sento lontanissimo e allo stesso tempo accanto al mio orecchio. Lo sento deciso, nel muro, come se squillasse nell’appartamento dei vicini. Il problema è che abito in una villetta indipendente e non ho vicini di casa. Che poi dire villetta è un po’ esagerato, in realtà ho una stanza, due bagni, uno studio, una cucina con salone, tutto su un piano, è una bella casa, non troppo grande ma funzionale come dicono nei programmi televisivi di ristrutturazioni, si sta bene, il quartiere è tranquillo, e soprattutto non ho vicini di casa.
Il cattivo tenente | Disorientamento post Manifattura Tabacchi
– Quindi la rubrica dei Bellissimi della Bocciofila è finita, peccato, ho letto racconti favolosi. – Eh già, siamo molto soddisfatti. – Altro che soddisfatti, voi racconti così mica li scrivete, hai visto che sono stati citati anche in altri blog e riviste? I vostri invece mai. – Coincidenze.
Juliet, Naked | Una notte abbiamo chiuso gli occhi e al mattino avevamo quasi quarant’anni
(lei) Salgo le scale e immagino di trovare il suo corpo inerme, senza vita, in un drammatico abbandono, un braccio cadente a sfiorare il pavimento e gli arti sostenuti a fatica dai cuscini, come apostoli di fronte alla Deposizione di Cristo. Un divano tombale, tra coperte a quadretti e calzini di una settimana. Un silenzio ovattato, assordante, un silenzio di inerzia e decomposizione. La chiave gira nella serratura, ho un brivido, una leggera sudorazione fredda, gelida, dietro il collo. Il divano è un sepolcro vuoto. Percepisco un fruscio dalla cucina, lieve e lancinante. So già cosa sta per succedere ma mantengo la calma, respiro, sarò gentile, respiro, inclinerò la testa per annuire, con la faccia senza espressione. Faccio un passo, due, sorrido, torno indietro. (Una notte abbiamo chiuso gli occhi e al mattino avevamo quasi quarant’anni. Nemmeno fossimo Tom Hanks. Ieri stavamo seduti su una panchina, al sole, a leggere Alta Fedeltà, stilando le nostre personalissime liste, ma a pensarci bene ieri era vent’anni fa. E cosa è successo in quelle poche, pochissime ore? È stata una notte troppo lunga).
Il traditore | Chino con la faccia a terra
La donna si accascia a terra. Resta inerte per pochi lunghissimi secondi – sbatto le palpebre due, forse tre volte, il tempo sembra infinito – quindi appoggia le mani sul pavimento, stende le braccia, rigide, ferme (le braccia sono due tronchi aggrappati al suolo, l’epidermide si compatta in corteccia e resina), infine trascina il bacino e si abbandona sulle ginocchia. Silenzio. Le dita nodose scivolano lungo i fianchi e con un movimento impercettibile aggrovigliano la gonna nera fino a scoprire le cosce: la pelle, pallidissima, esplode in chiazze scure e corpose di vene e capillari. Provo a farmi spazio nel capannello di curiosi, riesco a scorgere, tra una testa e un cappello, la sagoma genuflessa della donna. È in quel momento che vedo i piedi nudi: asfalto, fango, fili d’erba, pietrisco, la pianta dei suoi piedi è una strada, è un calvario, è un crescendo di lacrime e patimenti e privazioni, è un succedersi di notti in bianco, è un sentiero di promesse e penitenze. È una vita intera. Sono così assorto nella contemplazione che non percepisco la torsione della sua schiena. In un attimo la donna è distesa con la faccia a terra. La lingua striscia sul pavimento.
Il professore e il pazzo | L’infame destino delle parole vetuste
Tanto tempo fa esisteva una parola che solleticava il naso e colorava le guance di rosa. A volte un rosa antico, tenue, che ravvivava l’incarnato, in altri casi violaceo, che si propagava a macchie sul collo e sul petto fino a infiammare le orecchie. La stessa parola riempiva le bocche dei bambini mentre lanciavano sassi nell’acqua: le sillabe si conficcavano nelle fessure dei denti e tintinnavano tra le molliche di pane. Pungeva i polpastrelli delle fanciulle intente a leggere lettere d’amore; si mescolava al sudore sulla fronte dopo una giornata nei campi.
Domani è un altro giorno | E se fossi io?
Avevo sedici o diciassette anni quando vidi un manifesto funebre con il mio nome stampato sopra e mi convinsi di essere morta. Luglio. Come ogni anno trascorrevo l’estate con i nonni, giù in paese. Le campane delle otto non si erano ancora sentite. Percorrevo in bici la lunga strada secondaria che costeggiava il paese. In realtà non era così lunga ma la pendenza la faceva sembrare infinita. Per inciso, non mi infilavo mai nella strada principale perché lì sì che il dislivello era impressionante e a metà salita ero disfatta, spompata, boccheggiante, con la faccia paonazza, a chiazze, scendevo dalla bici e la spingevo a mano, la maglietta appiccicata alla schiena e le ascelle sudate. Mi vergognavo della mia scarsa prestanza fisica, di fatto le mie inclinazioni erano spiccatamente indirizzate a qualsiasi cosa si potesse fare da fermi, magari seduti.
Capri-Revolution | Dialogo sui minimi sistemi
(Due uomini a torso nudo davanti a un muro. Sono in ginocchio, uno dà le spalle all’altro. Vediamo solo le loro schiene. La posizione è scomoda, l’uomo più vicino al muro si alza e prende un cuscino, poi ritorna al suo posto. Non si guarderanno mai.) – Pensi che l’arte possa salvarci? – Salvarci da cosa? – Da quello che succede, da quello che siamo diventati. – Perché, tu non sei contento di chi sei? – Non so esattamente chi sono, o cosa. Perché tu lo sai?
Ride | Se qualcosa non c’è, esiste?
L’assenza è un piatto di spaghetti al pomodoro prima di andare a lavoro. È un orzo in tazza grande nella sala d’aspetto di un ospedale. È un budino alla vaniglia che non riesci a mandare giù. Io non mi ricordo il sapore dell’assenza. Sarà che mi sono scottata la lingua con un tè bollente, sarà che mangio con poco sale perché ho la pressione alta. Non aggiungo spezie esotiche, non condisco con olio a crudo, non sfumo con vino bianco. L’assenza mi piace assaporarla così: pesante e inconsistente.
Notti magiche | Provo a raccontare gli altri ma poi finisce che parlo di me
L’inquilina del secondo piano di notte accende le luci del salotto. Restano accese per due ore, a volte tre. La vedo camminare da un lato all’altro della stanza, con una vestaglia a fiori, i capelli grigi raccolti in una crocchia. Parla, non so a chi perché vive da sola, o forse non parla, muove solo le labbra.